UN MAESTRO D'IMPRESA E DI VITA
Le prime tracce di San Felice sul Panaro come villaggio
fortificato (Castellum Sancti Felicis) risalgono a un documento del 927. Per
molto tempo, le sue sorti furono legate in maniera alterna al dominio degli
Este (che nel 1340 fecero costruire una splendida
Rocca, che purtroppo è stata danneggiata dal terremoto del 2012) e a quello dei
Pio, Signori di Carpi. Ma quasi tutti gli edifici che vediamo oggi percorrendo
le vie del paese sono stati costruiti da generazioni d’impresari edili appartenenti alla famiglia Stabellini…
E molte imprese edili sorte negli ultimi cinquant'anni sono state
costituite da ex dipendenti della nostra azienda, la Alcide Stabellini S.r.l.
(fondata da mio padre nel 1958), che si sono messi in proprio e con cui abbiamo sempre mantenuto buoni rapporti, perché
rappresentavano una prova di crescita della nostra stessa attività.
A proposito di crescita, nel 1981, lei ha avuto
un’intuizione che ha fatto compiere un passo importante al settore
dell’isolamento termico in edilizia, fondando la
Edilteco, oggi una piccola multinazionale, che sfrutta le caratteristiche di un
prodotto coperto da brevetto e invidiatovi dai più grandi gruppi di tutti i
paesi del mondo. Quanta propensione alla novità e quanta tendenza alla qualità ci sono nel suo lavoro di costruttore, se ha
addirittura fondato una fabbrica di prodotti che migliorassero le condizioni
degli edifici?
Considerando che ho sempre avuto particolare attenzione alla qualità
della vita all'interno delle abitazioni, coltivavo un
interesse costante per le tecnologie d’isolamento da applicare alle costruzioni
che realizzavamo. Fra le proposte innovative che mi venivano fatte in quegli
anni, ci fu quella di un imprenditore modenese, che mi mostrò un additivo brevettato da un chimico francese, che alleggeriva gli impasti
strutturali del cemento, quindi consentiva un’economia nel trasporto, ma
soprattutto non assorbiva acqua. Se è vero che i manufatti esposti all'esterno
si degradano perché assorbono acqua e subiscono il
ciclo del caldo e del freddo, del gelo e del disgelo – pensai –, questo
additivo può essere applicato alle malte, in modo da creare una schiuma per
mescolamento, non per reazione chimica, un impasto permeabile al vapore – che
quindi lascia traspirare le pareti – ma impermeabile
all'acqua. Chiaramente capii subito quanto sarebbe stato efficace nelle malte
di deumidificazione e risanamento: considerando che il mattone assorbe l’acqua
per capillarità, con questa malta si sarebbe comportato come una carta assorbente, assorbendo l’acqua di risalita, che trasformava
ed espelleva sotto forma di vapore.
Naturalmente, non potevo lasciarmi sfuggire un’occasione simile e, con
l’aiuto di una banca – all'epoca le banche seguivano ancora le imprese nel loro
sviluppo –, acquistai il brevetto. Così, ebbi la
possibilità di produrre l’additivo che, non essendo chimico, non poteva essere
imitato, anche se i tentativi sono sempre stati in agguato: fin da subito, la
Montedison aveva visto in fiera i nostri risultati e ci ordinò un bidone di due quintali di additivo per provare ad
acquisire informazioni sul prodotto, ma senza successo. Molti hanno cercato di
copiare negli anni successivi, facendo prodotti con reagenti chimici che hanno
bisogno tra l’altro di malta cementizia, mentre la
Soprintendenza, per esempio, non accetta l’uso del cemento nei restauri. Il
nostro additivo, EIA (Edilteco Insulating Additive), è un prodotto ecologico e
biodegradabile, che non contiene additivi chimici, ma solo componenti naturali,
ricavati dal regno animale e vegetale.
Dovrebbe essere la bandiera del nostro paese nell'edilizia…
In realtà lo è, come lo sono le applicazioni che siamo andati sviluppando
e che i miei figli Paolo ed Elisa ancora oggi sviluppano in Edilteco, fra cui
la gamma di prodotti per l’isolamento acustico. Ai
miei figli devo anche l’espansione estera, io non avrei avuto la forza
necessaria per aprire quattro filiali (Benelux, Francia, Spagna e Argentina) e
avviare una rete di decine di partner che producono su nostra licenza in tutto il mondo.
La stampa francese, diversamente da quella italiana, dà il
meritato risalto alle vostre innovazioni: “L’Italien Edilteco isole la France”,
recitava il titolo di un articolo apparso in prima pagina del “Courrier de
l’Ouest” il 5 novembre scorso…
L’articolo prende spunto dalla notizia del raddoppio del nostro
stabilimento a Saint-Germain-sur-Moine, che sarà operativo dal primo trimestre
dell’anno prossimo. La differenza nell'accoglienza che un paese come la Francia
riserva alle imprese innovative non è solo mediatica:
quando siamo partiti, nel 2001, l’amministrazione locale ci ha messo a
disposizione un’area di 10.000 metri quadrati a un euro al metro e ci ha
favorito offrendoci tutte le possibilità per un ampliamento futuro. Per non
parlare della velocità con cui abbiamo ottenuto i
permessi e le autorizzazioni: abbiamo presentato le richieste in aprile e in
agosto eravamo già pronti per avviare i lavori. Tre mesi prima, in gennaio,
avevamo chiesto in Italia i permessi di ampliamento della nostra sede di San Felice, ma prima di poter costruire è
trascorso un anno e mezzo, pur non essendoci niente di nuovo nel progetto.
Questa si chiama politica industriale…
In Italia la burocrazia crea danni allo sviluppo, perché frena
l’iniziativa dei tanti imprenditori ingegnosi e
geniali di cui il paese dovrebbe invece essere orgoglioso. Anche nella
ricostruzione post-terremoto, la burocrazia sta facendo morire le aziende, con
inutili richieste di documentazione laddove i danni sono più che evidenti,
favorendo così assurdi interessi corporativi e
alimentando un’economia sommersa, che si eviterebbe sicuramente se l’Italia
fosse capace di darsi poche regole, chiare e precise.
Qui si ascolta la voce del maestro di vita. Tra l’altro
lei, prima di fare il costruttore, insegnava alle
scuole elementari…
Molti mi chiamano ancora “il maestro” perché ho sempre fatto le cose con
amore, con la massima dedizione. Da ragazzo affiancavo mio padre nell'impresa
di costruzioni e frequentavo il liceo. Poi, quando capii che c’era bisogno del mio aiuto in famiglia, passai dal liceo alle
magistrali per avere un diploma e poter lavorare. Ottenuto il diploma, mi
dedicai alle supplenze e ai concorsi. Quando divenni insegnante di ruolo, mi
affidarono una classe di otto bambini – due in prima,
uno in seconda, uno in terza, due in quarta e due in quinta – nella località
montana Rimessa di Riolunato: per un anno, mi alzavo alle 6 del mattino perché
impiegavo due ore di auto per raggiungere la scuola. Dovevo parcheggiare l’auto
sulla strada statale n. 12 e raggiungere la scuola a
piedi. Gli abitanti mi volevano molto bene perché non ero come gli altri
insegnanti, che dopo un mese si mettevano in malattia; non solo, quando
arrivavo al mattino percorrevo un chilometro e mezzo di strada in più per caricare tre alunni presso un caseificio. L’anno dopo
feci domanda a Bomporto e fu accettata. Essendo una scuola a tempo pieno,
potevamo alternarci con il mio collega, in modo che potessi seguire l’azienda
il sabato e qualche mattina. Ma voglio sottolineare
che a scuola riuscivo a instaurare un distacco assoluto dal lavoro di
imprenditore. Per questo i genitori apprezzavano molto il mio modo d’insegnare,
anche se facevo loro presente che avevo altri interessi oltre alla scuola. “I
vostri figli a scuola devono venire volentieri –
dicevo –. Se oggi imparano a venire a scuola e fanno volentieri ciò che sono
obbligati a fare, domani faranno volentieri il loro lavoro nella vita”. E i
bambini addirittura piangevano se non potevano venire a scuola per qualche motivo. Io ero un insegnante “non inquadrato”: se durante la
ricreazione facevano un gioco e per finirlo occorrevano cinque minuti in più
dell’intervallo, io li lasciavo finire. Credo che questa elasticità sia anche
frutto dell’esperienza di impresa: un insegnante che
ha fatto solo il suo mestiere tende a essere rigido, non riesce a dare
quell'educazione che sarà necessaria agli adulti di domani: non è “maestro di
vita”. I miei bimbi a scuola erano bravi, si applicavano, e io non avevo
problemi di disciplina. Io non mi limitavo al
rispetto delle regole, ma pretendevo il massimo impegno quando c’era da
applicarsi. Concedevo e pretendevo. Distinguevo il tempo dello studio e quello
della ricreazione.
Questo è l’approccio che ha adottato anche nei dispositivi
con i suoi collaboratori?
Non ho mai considerato i miei collaboratori come dipendenti. Evitavo che
vedessero in me il padrone, ero colui che cercava il lavoro perché loro
potessero portare a casa una busta paga.
Le soddisfazioni che ho avuto come imprenditore mi
hanno permesso di sopportare le fatiche più dure e di non entrare mai in crisi
al punto da sentirmi stressato. Nella mia vita ho sempre cercato la differenza
e la varietà, e svolgevo ciascuna attività con impegno assoluto, senza pensare
alle altre. Mi riposavo nel viaggio di ritorno dalla
scuola, poi pranzavo e subito dopo prendevo il camioncino già carico e andavo
al nostro cantiere di Cervia, scaricavo e tornavo a casa.
A volte mi chiedo come sia riuscito a fare tante cose e a costruire fino
in Valle di Fassa e in Sardegna. Nel 1970 sono entrato nel consiglio di
amministrazione della Cassa di Risparmio a Mirandola dove sono rimasto per 22
anni, come consigliere, contribuendo allo sviluppo di
una Banca che aveva il 42 per cento dei clienti del territorio, ben
capitalizzata e capace a farsi carico delle esigenze delle imprese locali.
Adesso le banche non fanno più il loro mestiere, si dedicano all'alta finanza
facendo mancare il supporto all'economia.
I miei figli avranno soddisfazioni diverse, però l’Italia è diventata
troppo complicata e questo mi dispiace, perché è bella e ha un patrimonio
inestimabile. Dico ai miei figli e ai lettori della vostra rivista che è ora di
voltare pagina: occorre eliminare questi fronzoli
burocratici che stanno imbalsamando le persone e le imprese, tant'è che le sole
aziende in crescita oggi sono quelle che lavorano con l’estero. Abbiamo creato
servizi inutili e improduttivi, che rappresentano uno
spreco di risorse e servono solo a foraggiare le corporazioni. Se arriviamo a
snellire la burocrazia ci sarà maggiore sviluppo, più di quanto possano
garantire i contributi. Ormai la battaglia non sta nella contrapposizione fra
padrone e operaio, ma nella valorizzazione del nostro
patrimonio culturale, scientifico e industriale, una battaglia da fare insieme.
Solo così riusciamo a far ripartire l’Italia.