DALLA PULIZIA URBANA, LA VITA DELLE NOSTRE CITTÀ
“C’è sempre una rossa fatta apposta per te!”. La rossa di
questo slogan non è un’auto di Formula 1, ma una macchina RCM, che producete a
Casinalbo, a pochi chilometri dalla casa di Maranello, e altrettanto famosa nel
mondo per chi esige le più avanzate performance nella
pulizia urbana e industriale. Con due linee complete di motoscope e lavasciuga
e una gamma di oltre 40 modelli in costante evoluzione, siete stati pionieri in
Italia e avete dato un impulso costante all'innovazione del settore nel resto del mondo, fin dal 1971 con la R500, tanto che oggi la vostra
rete commerciale si estende in oltre 70 paesi. Attraverso la storia delle
vostre macchine, potremmo raccontare la storia dell’economia, della politica e
della società. Per esempio, quanto possiamo capire
dell’organizzazione delle nostre città, seguendo le vicende delle vostre
macchine per la pulizia urbana, partendo dalla RX918 (1986) per arrivare alla
recente super ecologica Zero System?
Come abbiamo ricordato nell'intervista precedente, la copertina della pubblicazione che documentava le novità della
fiera più importante al mondo per il settore della pulizia professionale, la
Issa/Interclean di Amsterdam, nel 1986 riproduceva proprio la RX918, perché era
anche troppo innovativa per l’epoca. Tuttavia, quello
che doveva essere un motivo di successo ─ una tecnologia capace di risolvere il
problema della pulizia di marciapiedi alti 15-20 centimetri ─ si è dimostrato
un limite dal punto di vista commerciale, nel momento in cui, da lì a poco,
sarebbero state abbattute tutte le barriere
architettoniche.
Da allora, a partire da questa macchina così complessa, dotata di sensori
e meccanismi sofisticati, si è avviato lo sviluppo di tutta una serie di
modelli più semplici per la pulizia dei marciapiedi, per cui, da pionieri, ci siamo trovati a dover confrontarci con la
concorrenza mondiale, che ha prodotto a costi minori e quindi con prezzi molto
più competitivi sul mercato.
Oggi, a distanza di 28 anni, abbiamo reinterpretato la pulizia dei
marciapiedi e delle aree urbane pedonalizzate,
proponendo una soluzione che è esattamente l’opposto della RX918, è quanto di
più semplice ed essenziale possa essere concepito: Zero System, una soluzione
che per spostare una macchina per la pulizia utilizza un mezzo di trasporto che non ha costi, non fa rumore e non inquina, il mezzo
più tradizionale del mondo, ovvero il triciclo dei nostri nonni.
In questo caso possiamo dire a buon diritto dei “vostri”
nonni, considerando che Ippolito Raimondi, il nonno paterno, aveva aperto una fabbrica di biciclette nel 1899…
Infatti. Zero System ha avuto subito una bella opportunità, grazie alla
Hera di Bologna, che ha sposato il progetto e ci ha commissionato sei mezzi con
i quali, dal novembre 2013, pulisce i portici del centro storico, con grande soddisfazione dei cittadini, oltre che nostra e
della stessa Hera.
Ci aspettavano che questa sperimentazione così positiva ci avrebbe aperto
la strada nei comuni di altre città, invece ci siamo trovati di fronte a un
limite: l’abitudine a concepire un servizio
strutturato in un modo che ormai rappresenta un sistema consolidato. Nelle
nostre città si vedono spesso due persone con la ramazza e il soffiatore che
accumulano dagli angoli verso il centro delle vie materiale che poi viene
raccolto da una macchina tradizionale, di dimensione
media o grande, condotta da un’altra persona. Questo è un sistema ormai
perfettamente collaudato e finanziato dalla comunità, per cui, tutte le aziende
municipalizzate e le cooperative che lavorano per loro hanno investito in questa direzione e, come ci ha riferito un
dirigente, anche se il nostro sistema è apprezzato, può essere adottato solo a
patto che venga finanziato come servizio aggiuntivo rispetto a quello
esistente, che non deve essere messo in discussione per evitare che vengano sottratti preziosi posti di
lavoro.
Questo costituisce un limite notevole alla diffusione di un mezzo che,
pur avendo una sua logica e una sua funzione anche economica, è penalizzato da
abitudini e schemi mentali che richiedono anni prima
di essere dissipati, e un’azienda non può aspettare anni.
Forse questo sistema, che in Italia si scontra con questo limite, può
avere una maggiore diffusione all'estero, dove, come purtroppo in tanti altri
settori d’attività, c’è una maggiore apertura verso
le novità e, diciamolo pure, una maggiore attitudine alla richiesta di pulizia
da parte del cittadino nei confronti dell’amministrazione.
Fortunatamente, RCM non vive di questa esperienza.
Lei ha messo l’accento sugli schemi e sulla mentalità che
ingessano un paese. È uno dei problemi principali della nostra società ed è uno
dei motivi per cui non c’è mai stata una vera politica industriale…
In effetti, ogni manifestazione di vita della nostra società attuale è regolata da questi meccanismi: dietro l’alibi di
dover rispondere a esigenze del singolo, quindi dell’individuo, ma che
dovrebbero essere di tutti gli individui, si nasconde – in modo fin troppo
palese – il particulare. Un caso assolutamente plateale è il maledettissimo articolo 18. È di
dominio pubblico che il problema riguarda il 2 o il 3 per cento dei contenziosi
in Italia. Contenzioso che è fisiologicamente ragionevole. Ma, allora, perché
gli industriali sostengono che l’articolo 18 ci frena
e non ci consente di assumere? Dall’altra parte, i sindacalisti ci dicono che
senza l’articolo 18 non è possibile nemmeno pensare di avviare un rapporto di
lavoro. Entrambi sanno benissimo che non è questo il problema. Se leggo
l’articolo 18 da cittadino, trovo qualcosa di
assolutamente ragionevole: non posso licenziare un collaboratore, se non per
giusta causa. Allora, qual è l’ostacolo all’applicazione di una norma così
ragionevole? È forse il fatto che sia l’uno che l’altro la usano a scopi propri, per aver ragione a tutti i costi anche contro
decisioni logiche? Nella nostra storia aziendale, ci sono state persone che
hanno fatto cose talmente inumane che era logico poterle licenziare
immediatamente. Eppure, siamo dovuti ricorrere a sistemi trasversali, per raggiungere uno scopo che era lecito per
tutti.
Se parliamo di ideologia allo stato puro, che non ha niente a che vedere
con la realtà e frena il nostro sviluppo, la nostra capacità, la nostra volontà
di migliorare le cose, basta prendere in esame
qualsiasi manifestazione della vita pubblica e ci troviamo di fronte a questi
muro contro muro che sono un vero disastro.
Per non parlare dell’immagine che viene data dell’Italia:
perché i media non parlano mai dell’Italia che lavora? Eppure, mai come oggi ci sarebbe bisogno dell’esempio di aziende come la
vostra, per ridare entusiasmo ai giovani e incoraggiarli nelle loro intraprese.
Se mettessimo una telecamera nelle aziende come la vostra che lavorano in tutto
il mondo, i cittadini rimarrebbero sorpresi di quanta
cultura produce un’azienda, tanto da risultare centro di ricerca, d’invenzione
e di scambio internazionale.
È vero, ma se pensiamo che su Wikipedia non c’è nemmeno una definizione
di motoscope e lavasciuga, ci rendiamo conto di quanto gli imprenditori del settore siano consapevoli della propria
capacità di fare cultura. Se la prima cosa che facciamo non è divulgare il nome
del nostro prodotto, non abbiamo capito affatto che il nostro lavoro non è solo
quello di perseguire il profitto, ma anche di capire
che viviamo in un mondo in cui la conoscenza è fondamentale. E la conoscenza
parte dalle parole.
Purtroppo vigono ancora contrapposizioni ideologiche che
considerano l’impresa come luogo in cui si è costretti a stare per otto ore,
mentre la vita vera si svolgerebbe al di fuori. Per
questo è in voga la tendenza – a proposito del tema di questo numero – a
cercare di equilibrare la vita con il lavoro…
Evidentemente siamo riusciti, nel tempo, a convincerci che lavorare non è
vivere. Per fortuna, nella nostra esperienza
aziendale, non abbiamo questo problema, forse perché siamo un’azienda
relativamente piccola, familiare fin nelle ossa, e mi sembra di capire che i
nostri collaboratori si sentano come membri di “una grande famiglia”.
Nelle realtà in cui questo non accade, è chiaro
che occorre uno sforzo per aumentare la consapevolezza di quanto un’azienda sia
produttrice di cultura, non di una cultura accademica, ovviamente, ma nel senso
di un approccio più interessante al lavoro come aspetto imprescindibile della vita, senza quella tendenza a pensare che un
reparto sia contro l’altro e che ci sia ancora una contrapposizione fra la
proprietà e i dipendenti. Non è facile raggiungere questa meta, perché la
formazione e la comunicazione richiedono investimenti
notevoli, non tanto in hardware, ma in software, e per software intendo la
mente delle persone, più che l’informatica.