LA PRESA DELLA PAROLA

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brainworker, scienziato della parola, presidente dell’Istituto culturale “Centro Industria”

Nella vita ordinaria ognuno è preso da tante cose, dai pensieri, dal lavoro, dalla famiglia, dalla paura. Per sfuggire a questa presa cerca di prendere a propria volta: prendere più soldi, prendere tempo, prendersi una pausa di riflessione, per meglio capire o comprendere. In entrambi i casi è in gioco il soggetto, soggetto alla presa o soggetto della presa sulle cose. E questa presunta capacità di prendere, con la mano e con il pensiero, sarebbe ciò che distingue, secondo la filosofia, la natura umana da quella animale, sprovvista di mano.
Ma la mano è semplicemente un organo prensile? È addirittura una protesi? È naturale, precedente o antitetica alla parola? “In principio era l’azione”, scriveva Wolfgang Goethe, ma l’azione non prescinde dalla parola, e l’atto è atto di parola. La mano non viene prima della parola, non sta sotto la parola, non è la sostanza che la fonda, la mano è intellettuale. Con la cifrematica come scienza della parola, la mano si qualifica come mano intellettuale, come logica particolare a ciascuno. A ciascuno la sua logica, a ciascuno il suo modo, il suo idioma. A ciascuno la sua impresa, non a ognuno la sua presa, la sua soggettività. La presa sulla parola, il far presa sulle cose risultano impossibili se la mano è intellettuale, se ciascuno, procedendo dall’apertura e secondo la mano intellettuale, si attiene all’occorrenza, al tempo che governa le cose, come notava Niccolò Machiavelli.
La mano intellettuale comporta la presa della parola, non la presa sulla parola. Niente a che fare con la mano di cui scrive Platone, atta a produrre il vaso ma soprattutto a riprodurre il vasaio, o con quella di cui parla Karl Marx, impegnata nell’accumulazione della ricchezza, o con la mano invisibile di Adam Smith, che finalizza l’azione dell’individuo al bene comune. In questi casi si tratta di una mano che ambisce alla sostanza, che deve tornare all’origine, al bene. La mano resta in questo modo nella logica della mancipatio, che nel diritto romano è un antico negozio traslativo di proprietà di cosa o persona (per esempio il filius) mediante un atto simbolico, un manu capere. Da questa presa sorge l’idea di riscatto e di liberazione, perché per uscire dalla mancipatio occorreva l’emancipatio, l’emancipazione concessa dal padre o dal padrone. Capio, capire, comprendere. La presa della parola non è il capire, non è il com-prendere, il prendere insieme, non è afferrare il concetto, da cum capere. Il capire sarebbe la presa sulla parola, e quello che non viene preso, afferrato, capito non avrebbe senso. Questa presa sulla parola nega la scienza, che si qualifica non perché prenda insieme, ma per la divisione che le è propria, come indica l’etimo indoeuropeo ski-, skid-,scindo, divido. La scienza dipende dalla mano intellettuale perché esige la presadella parola, che le cose entrino nella parola senza accomunarsi. Per questo la coscienza non esiste: sarebbe la scienza comune, basata sulla presa sulla parola. La presa di coscienza.
Con la scienza della parola la mano è intellettuale, sfugge alla presa perché ciò che acquisisce attiene alla sua logica particolare. Non c’è padronanza sulla parola se è la parola che prende nella sua logica e nella sua esperienza, e man mano non consente rappresentazioni. La mano intellettuale non si trova nella contemplazione perché risente del fare e della divisione che ne segue, dell’influenza del tempo e non della sua fine, come l’impresa. È la mano in viaggio, cui si attiene l’esperienza pragmatica, lontana dalla possessione, dalla rappresentazione, dalla significazione e dal contatto. L’impresa che si fonda su queste sostanze nega il mito della madre e, praticando il matricidio come religione della fine del tempo, non giunge alla riuscita. L’impresa che non si avvale della mano intellettuale naviga a vista e è senza avvenire.
La mano: la logica, i mezzi, i modi, l’inconscio in atto, nella città, nell’impresa, nella famiglia. La mano nel viaggio pulsionale, nella forza non naturale, di cui Leonardo da Vinci scrive: “Nessuna cosa sanza lei si move. Nessuno sono o voce sanza lei si sente”. La forza che non si vede e non si misura, eppure che è “... infinita insieme col tempo” e con cui “infiniti mondi si moverebbe, se strumenti far si potessi dove essa forza generare si potessi”, nota ancora Leonardo. E non c’è presa che tenga su questa mano insociale, mano pulsionale, perché attiene al modo particolare a ciascuno. Questo modo procede dall’apertura e inaugura una procedura impenale, in cui le cose si dicono, per questo non pesano. L’omertà sorge dalla paura della differenza: le cose dicendosi non fanno uno, non tornano all’origine ideale, ma sono esposte alla divisione e alla differenza.
A questa omertà non partecipa l’impresa, in cui la cura esclude la preoccupazione e in cui, facendo, nessuno toglie nulla all’Altro. Con l’impresa, facendo, non c’è più tempo per la volontà soggettiva, la presa di posizione, ovvero la libertà di scelta del soggetto preso dalla fine del tempo. Gli uomini sono uguali perché mortali? In quanto emuli del tempo, gli imprenditori si attengono a una differenza e a una varietà assolute, in un viaggio senza posa e rappresentazione. E Machiavelli divideva gli uomini fra felici e infelici proprio rilevando l’importanza del tempo, come scrive nei Ghiribizzi a Giovan Battista Soderini: “Quello è felice che riscontra il modo del procedere suo con il tempo, et quello, per opposito, è infelice che si diversifica con le sue actioni dal tempo e dall’ordine delle cose”.