ARTE E INVENZIONE NEL BIOMEDICALE ITALIANO
Nel 1962, quando lei ha incominciato il suo viaggio imprenditoriale, a Mirandola c’erano poche attività produttive per lo più legate all’agricoltura e all’allevamento, che operavano in una zona qualificata come depressa. Ma, come nella migliore tradizione rinascimentale italiana, c’era anche un uomo, Mario Veronesi, oggi riconosciuto come il padre del polo biomedicale più noto al mondo…
A quell’epoca, nessuno, me compreso, sapeva cosa fossero i prodotti biomedicali, pertanto la loro invenzione avvenne casualmente, quando un mio amico di Mirandola, mi propose di produrre tubicini di plastica usa e getta per fleboclisi. Fu così che ritornai negli ospedali in cui avevo svolto il compito d’informatore farmaceutico, interpellando medici e infermieri per verificare cosa occorresse, fondando la Miraset e realizzando il primo prototipo. Ma questo è stato possibile perché nel territorio c’era (e c’è) un indotto notevole di aziende di eccellenza che producono stampi e attrezzature meccaniche, che fanno ricerca e stampano plastica per conto terzi. Ciascuna modifica che apportavo nasceva nel garage sotto casa, poi in un appartamento più grande a fianco, e, nel 1964, quando ho fondato la Sterilplast, nello stabilimento oggi sede della multinazionale Gambro. Ben presto, l’ospedale di Padova mi chiese di produrre circuiti per dialisi e, quando capii cos’era la dialisi, fui il primo in Italia a produrre il rene artificiale. La divisione della Steriplast, Dasco, che nel frattempo avevo sviluppato, fu la prima in Europa a produrre il rene artificiale di facile uso e di basso costo. È stata la più grande soddisfazione della mia vita perché, nella seconda metà degli anni sessanta, morivano di insufficienza renale cronica 40 persone ogni milione di abitanti e in Italia ne morivano tremila l’anno. Avevo la gente che faceva la fila fuori casa, disposta a pagare in contanti l’acquisto dei reni artificiali. Tuttavia, il rene artificiale non rientrava nei programmi di acquisto degli ospedali, pertanto, pur avendo evaso diversi ordini, non incassavo un soldo. Fu in quel momento che mi trovai dinanzi a un bivio: lasciare affondare l’azienda nei debiti o valutarne l’acquisto da parte di multinazionali, più solide finanziariamente, che ne avrebbero sostenuto ricerca e sviluppo. Ho scelto la seconda ipotesi, ma, pur rimanendone dirigente, non condividevo le rigide procedure della multinazionale, più utili alla produzione di grandi quantità. Io ero abituato a realizzare prodotti e servizi su misura. Per questo, nel 1972, ho fondato Bellco, crasi di “bella compagnia” di dieci soci, con cui incominciai a vendere direttamente prototipi innovativi di reni artificiali. Ma la situazione degli incassi non era cambiata. Fu allora che il colosso dell’energia italiana, l’ENI, propose l’acquisto a condizione che continuassi a dirigere l’azienda. Rimasi AD di Bellco fino all’82, quando fondai una nuova società, la Dideco. Intanto Mirandola era divenuta la Biomedical Valley italiana e nel 1986 l’azienda registrava un fatturato di 20 miliardi di lire, tanto da divenire appetibile per un altra multinazionale americana, la Baxter, che trovò il pretesto per attaccare la concorrente con l’accusa di aver copiato i loro brevetti. Non avevo certo intenzione di dedicare il mio tempo in estenuanti cause legali e valutai più saggio offrire una provvigione sulle vendite in America, continuando a diffondere i miei prodotti in tutto il mondo. Fu allora che la stessa azienda per la quale avevo lavorato come informatore farmaceutico nel 1954, la Pfizer, mi propose l’acquisto della società.
Vendendo le mie aziende alle multinazionali ho dato la possibilità che crescessero, investendo ingenti risorse finanziarie quando occorrevano, per esempio, magazzini completamente automatizzati. Quando ho venduto alla multinazionale Mallinnkrott l’ultima grande azienda che ho fondato con altri soci, la Dar, in appena sette anni sono passato da un fatturato di 40 a 120 miliardi di lire. Poi è arrivato il momento di raccontare il mio viaggio in un libro, autoprodotto, dal titolo La plastica della vita. Ma, all’età di poco più di 70 anni, non ho potuto rinunciare alla sfida di dedicarmi a una nuova impresa, la Starmed, che ho portato in breve tempo a un fatturato di 6 milioni di euro, poi acquistata da un gruppo inglese.
Oggi, a 82 anni, vedo crescere il polo biomedicale più importante d’Europa in cui l’80 per cento del fatturato e del personale delle aziende più grandi che ho fondato costituisce il cuore del biomedicale italiano. Ho incontrato migliaia di persone in tutto il mondo, fra tecnici, scienziati e soprattutto medici, alcuni dei quali vengono a trovarmi per chiedere consigli su alcuni prodotti che hanno ideato. Tuttora ho partecipazioni in piccole aziende nelle quali i titolari sono miei ex collaboratori, che, a seconda delle necessità, indirizzo alle diverse aziende del settore di cui ormai ho la mappatura. È questo per ora il mio passatempo.