LA RIVOLUZIONE IN ATTO
“La gloria di colui che tutto move/per l’universo penetra, e risplende/in una parte più e meno altrove”. La terza cantica della Commedia, il Paradiso di Dante Alighieri, annuncia un altro movimento delle cose. E incomincia con la gloria, indice dell’irrappresentabile, senza la morte e il sacrificio. Nessun riferimento al motore immobile di Aristotele, che fonda l’ideologia della causa finale delle cose. Dio sarebbe il motore da cui deriva il movimento a causa della sua immobilità e pertanto è la meta finale verso cui tutto tende. Secondo questa logica, le cose si muovono finalisticamente per tornare all’origine, pura perché immobile, incontaminata e sempre uguale a se stessa. Aristotele disegna così il movimento circolare e non giunge al paradiso.
Le cose non tornano all’origine perché con il movimento le cose incominciano: “da dove vengono” è la macchina come percorso culturale e come invenzione – secondo l’accezione greca del termine mechané – e “verso dove vanno” è la tecnica come cammino artistico e come gioco – secondo l’accezione greca di téchne. Non hanno una finalità, bensì una direzione, si rivolgono alla qualità. Freud ha avvertito questo rivolgersi, questa rivoluzione e l’ha chiamata pulsione, forza costante (Konstantkraft). Macchina e tecnica, invenzione e articolazione partecipano a questa rivoluzione senza cerchio, a questa spirale, con cui il movimento non è circolare né spaziale. È movimento intellettuale.
L’andare e venire delle cose, il va e vieni della pulsione inaugura la ricerca, che procede dall’apertura originaria, lungo la dualità pulsionale. Nessuna ricerca senza movimento e senza procedura, per cui con la ricerca le cose non si accumulano e non si consumano. Mentre, secondo l’ideologia del meccanicismo, quel che è in movimento perenne logora, consuma, disturba, non rispetta l’ordine precostituito dalla finalizzazione delle cose. Da dove viene questa rappresentazione, se anche con Galilei il nostro pianeta si trova in un movimento inarrestabile? Nulla è più fermo o fisso, nemmeno la terra, come indica il terremoto. Nonostante la sofia greca con Aristotele abbia stabilito il primato della morte della materia, su cui poggia l’opposizione tra forma e sostanza, tra corpo e anima, tra soggetto capace e soggetto incapace, la materia è temporale, non è passiva, non si degrada, è materia del fare con il tempo, è fare materiale con il tempo. Questo fare esige la pulsione, la forza, la tensione,per cui le cose non si oppongono, bensì si dispongono, con la macchina e la tecnica, in una procedura per integrazione in cui la costanza e il ritmo sono imprescindibili e indispensabili.
Il dispositivo pragmatico non è la macchina del conformismo sociale, è dispositivo intellettuale. E, allora, la macchina e la tecnica sono la struttura in viaggio. Il viaggio avviene con la cultura e l’arte, con la macchina e la tecnica. L’accusa contro la macchina, sin dal suo sorgere, lungo le strade come mezzo di spostamento o nelle fabbriche come mezzo di produzione, proviene dalla constatazione che qualcosa che incomincia a muoversi non si può arrestare, perché ciò che è in movimento non è padroneggiabile né finalizzabile. E allora il pregiudizio si sposta sul movimento: ciò che si muove consuma, toglie risorse al pianeta, riduce il lavoro, mina la salute, quando non uccide. La credenza nel consumo suppone che le risorse, il lavoro, la salute, la materia stessa possano finire: in assenza del tempo e del fare, naturale sarebbe la loro fine, come naturale la loro origine.
Il manifatturiero disturba perché indica che la mano non è naturale, ma è intellettuale, perché comporta una produzione non procreativa, ma industriale. Con la mano intellettuale nessuna struttura materna, l’industria esige il mito della madre, in assenza di matricidio, dunque senza più il padrone che comanda e lo schiavo che subisce. Il pregiudizio che sorge contro la macchina, contro l’invenzione, trova la sua radice nell’idea che ognuno abbia i propri limiti e debba riconoscerli e mantenerli. È la paura di non avere paura, che insiste sulla conoscenza e impedisce la ricerca e il fare, che invece ignorano la conoscenza. L’idea di conoscenza privilegia i limiti e ignora i talenti, che invece sono inconoscibili, intervengono nel viaggio, non ci sono prima.
Vano risulta il tentativo di negare la macchina e la tecnica per cercare di risparmiare e misurare il tempo, per conservare e gestire la presunta inerzia della materia. La materia non è inerte ed è attraversata dal tempo, per cui le cose entrano nel ritmo. Come sapere come vanno a finire? E se non finiscono? Nel dire e nel fare le cose sono esposte senza fine all’invenzione e all’articolazione, che esigono il rigore e la follia come condizione della poesia, ovvero del fare, e si avvalgono dell’artificio come arte del fare. Che ne è del padrone se non c’è più schiavo? Che ne è della parola se non può essere inscritta in una logia? E infatti la questione è quella di istaurare la scienza della parola, ovvero la scienza senza logie, senza genealogie e senza burocrazie. La scienza che si avvale dell’intelligenza artificiale ovvero l’arte del fare.
Qualcosa non funziona – nulla di negativo, da qui l’arte – e qualcosa non va – nulla finisce, da qui l’invenzione –, anziché questo non (mi) funziona e questo non (mi) va, secondo la soggettività. Come la genealogia si fonda sulla padronanza del nome e della ricerca in un’economia del sangue, così la burocrazia si fonda sulla padronanza delle risorse, che sono sempre finite, in un’economia della macchina e della tecnica. La macchina e la tecnica esigono il cervello: dispositivo intellettuale e dispositivo di forza ovvero pulsionale, con cui ciascuno non è più dipendente, ovvero materia inerte, da chi può gestire il tempo. Macchina e tecnica indicano che la vita non è standard e non si può risparmiare il piede o misurare il passo, indicano la rivoluzione in atto verso la cifra, il capitale intellettuale.