NUOVE PROPOSTE PER L’EUROPA DEL MERITO

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presidente del Gruppo Termal, Bologna

L’ipotesi che lo scenario politico ed economico globale si appresti ad affrontare una profonda trasformazione nei rapporti fra Asia e Occidente apre un nuovo ruolo per l’impresa? Qual è il contributo dell’impresa all’agenda politica, economica e culturale del paese nel contesto europeo?

Il titolo di questo numero della rivista, Lembi di luce, è appropriato, perché questa crisi ha messo in discussione le unità di misura che hanno caratterizzato l’economia e la società fino a oggi. Un elemento che ha trovato risalto a causa della crisi è sicuramente il merito, che, come indica l’etimo, è la partizione, la parte che spetta, il giusto profitto. Sono cambiati i criteri che misurano e raffrontano la creazione della ricchezza e la sua ridistribuzione, con il conseguente avvio di un nuovo contesto nella società civile. Paradossalmente, è come se fossimo tornati nel dopoguerra dove la capacità di produrre ricchezza, e quindi il merito, era un valore preminente. Allora tutto doveva essere ricostruito perché distrutto, oggi perché già consumato dalle economie del debito.

All’interno della nuova civiltà del merito l’impresa ha un ruolo fondamentale, che è quello di organizzare la produzione della ricchezza. Ovviamente, la componente della solidarietà rimane, ma questa volta non è più mediata da uno stato che prende e distribuisce.

Cosa intende esattamente?

Il nuovo contesto europeo ha annullato gli stati nazionali e ha modificato le regole. Per assurdo ha reso possibile la creazione della ricchezza in un paese e il suo godimento in un altro. Quanto sta avvenendo è incredibile, ma dobbiamo prenderne atto. I meccanismi che da più parti erano presunti costituire l’elemento guida della ricomposizione sociale europea e che avrebbero dovuto consentire l’omogeneizzazione dei paesi dell’Unione, tramite il rientro del debito e del deficit, sono falliti. È fallita la teoria economica alla base della stessa Europa: la supremazia della moneta sullo stato. Ci troviamo pertanto con stati esautorati dai propri poteri e allo stesso tempo con l’assoluta necessità di aumentare la produzione di ricchezza per rientrare dal debito. Sarà quindi necessario individuare forme automatiche di erogazione di solidarietà, prima delegate agli stati nazionali. Forme che non sovrastino il merito, ma che tutelino le “cittadinanze dalle sovranità perdute”.

Eppure in Europa il Parlamento è garanzia di rappresentanza e democrazia ed è in corso un dibattito politico. E poi lei stesso afferma che è fallito il presupposto della supremazia della moneta sullo stato…

Il ragionamento è molto semplice: una moneta è governata da tassi d’interesse che vengono espressi sulla base di diversi fattori, ma soprattutto sulla base della rischiosità del debitore, perlomeno in questa fase di rientro del debito. Ma allora tutti si sarebbero aspettati che, in un contesto di moneta unica, un’impresa situata in un paese con la stessa rischiosità di un’impresa di un altro paese europeo potesse fruire sempre del medesimo tasso d’interesse. E così è stato nel primo decennio dell’Euro, ma ora due imprese identiche, con la medesima efficienza e rischiosità, fruiscono di tassi d’interesse differenti, semplicemente perché localizzate in paesi con debito pubblico di diversa entità. Il fattore “rischio paese” modifica regole classiche dell’economia e della moneta, e questo non era previsto all’interno di un’area monetaria unificata. In questa situazione si corre il pericolo di una deriva d’imperialismo economico e di drammi sociali.

È il famoso spread che doveva unificare l’Europa…

Ma gli effetti sono devastanti. Nel nostro sistema economico il tasso d’interesse è il presupposto dell’investimento. E senza investimenti non c’è sviluppo, senza sviluppo non c’è lavoro, senza lavoro c’è il dramma sociale e un maggior indebitamento per il sostegno al welfare. Se cresce il debito cresce il rischio paese. È un circolo vizioso. Le situazioni finanziarie hanno premiato la Germania con minori tassi d’interesse, con cui essa ha intensificato i propri investimenti sia in patria sia in altri paesi.

Le acquisizioni di ottime aziende italiane di medie dimensioni attuate dalla Germania sono numerosissime. Non si sono certo fermate alle blasonate Lamborghini e Ducati. La centralità economica tedesca è ormai una constatazione, costituisce un punto di riferimento organico non più soltanto nei confronti dei paesi dell’Est europeo. La Germania è sempre più ricca e potente non solo per meriti propri, ma anche per un distorto sistema finanziario europeo, che ha consentito un trattamento difforme delle rendite sui capitali e ingenti trasferimenti di denaro dai paesi più deboli a quello più forte. Inoltre, ai paesi deboli, come l’Italia, rimane il pesante onere delle cure, ovvero il sostegno sociale ai disoccupati che drena ulteriori risorse all’economia attiva del paese. Anche qui è constatabile il risucchio verso gli abissi: la maggiore spesa pubblica comporta una maggiore tassazione, dunque una minore produzione di ricchezza.

Quale dovrebbe essere il nostro atteggiamento verso l’Europa?

Sarebbe umiliante e inutile richiedere di costituire un’eccezione nell’applicazione delle regole, per ottenere la libertà di sconfinare dai limiti del deficit del 3 per cento. Equivarrebbe a domandare la continuità dell’economia del debito, quando è chiaro che questa strada non è più percorribile per garantire lo sviluppo, anzi produce l’effetto contrario, attraverso l’applicazione di tassi d’interesse penalizzanti.

Dobbiamo richiedere, anzi pretendere, dall’Europa la formazione di regole che sanciscano un uguale trattamento effettivo delle economie espresse dalle imprese e dai cittadini europei. Sono due le nostre principali esigenze: avere la certezza di tassi d’interesse uniformi in tutta Europa e usufruire di una solidarietà sociale non più delegata agli stati membri, bensì frutto di automatismi.

In pratica occorre richiedere l’obbligo di copertura da parte della BCE del debito pari al 60 per cento del PIL di ogni paese, che è il limite d’indebitamento considerato compatibile con l’adesione dello stato membro all’Unione. La copertura avverrebbe tramite la conversione di parte dei titoli degli stati “sovrani” in titoli europei emessi dalla BCE. Avremmo così un’uniformità di rischio per una parte importante dei debiti e quindi tassi d’interesse sostanzialmente similari nei vari paesi. La parte che resta, quella oltre il 60 per cento, sarebbe ugualmente penalizzata dalla copertura autonoma da parte dei paesi membri, però con minori differenze di tasso - data la riduzione della massa debitoria - per cui non consentirebbe che le stesse differenze si trasformino in alterazione dei fattori di sviluppo.

Bisogna richiedere, inoltre, l’uniformità nelle regole e nelle prestazioni sociali, ma anche un codice del lavoro europeo, perché la competizione deve avvenire all’interno delle medesime regole. Occorre che i contributi sociali siano europei, non più nazionali, riguardino i salari di tutti i lavoratori e vengano versati in una cassa europea destinata a sostenere le situazioni di disoccupazione. Così, nel caso in cui la crescita si orientasse su alcuni paesi riducendo l’occupazione negli altri, avremo una compensazione automatica di solidarietà sociale. In questo contesto, che va oltre le barriere dei singoli stati europei, l’impresa e il merito possono infine favorire l’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e quindi la produzione della ricchezza. Sulla carta non è difficile...

Cosa occorre fare in Italia?

La dimensione delle imprese, la flessibilità del lavoro, l’uguaglianza competitiva e la ricapitalizzazione delle PMI per una maggiore indipendenza dal sistema bancario sono i quattro aspetti principali alla base del nostro rilancio. L’innovazione è il nostro nuovo terreno di confronto per riacquisire una posizione competitiva nel pianeta. Innovare significa utilizzare appieno le nostre risorse intellettuali, tecnico-scientifiche e culturali. Ma per innovare occorre una dimensione d’impresa adeguata: la piccola azienda non può investire risorse sufficienti in questa direzione, non ha un assetto organizzativo efficiente, non ha obiettivi per i quali sia necessario innovare. Il “piccolo è bello” è stato lo slogan che ha accompagnato il periodo dei conflitti sociali, dove la rigidità delle regole sul lavoro imponeva alle aziende di servirsi del terzismo manifatturiero.

Oggi il piccolo è brutto e forse anche cattivo. Se questa centralità della crescita dimensionale fosse finalmente condivisa, la flessibilità, l’uguaglianza competitiva e la ricapitalizzazione diventerebbero i corollari necessari. Abbiamo necessità d’investimenti finanziari per sostenere l’evoluzione della piccola impresa verso maggiori dimensioni e dobbiamo dare certezza che questi rischi vengano assunti senza ulteriori gravami di responsabilità sociale per coloro che già rischiano il proprio patrimonio, altrimenti appare difficile trovare queste disponibilità. Indispensabile è anche la massima flessibilità nei contratti di lavoro, sia in entrata che in uscita, e il trasferimento della responsabilità sociale all’Europa tramite i citati automatismi.

Sotto il profilo normativo questa riforma non sarebbe difficile, basterebbe emulare la Spagna. Occorre giungere poi alla parità di trattamento fiscale fra tutte le imprese, sia quelle private che quelle sociali (cooperative), attraverso una fortissima riduzione delle tasse sulle imprese private, sugli utili non redistribuiti e sull’immissione di nuovi capitali.