DALLA CINA ALL’EMILIA ROMAGNA: NUOVE FRONTIERE PER L’IMPRESA

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presidente del Gruppo Termal, Bologna

Mentre molte aziende ritengono essenziale spostare la produzione all’estero, il Gruppo Termal invece richiama gli investimenti dalla Cina per rilanciare le sue attività a Bologna. Quale occorre che sia la direzione delle politiche economiche del paese per favorire gli investimenti in Italia per il prossimo futuro?

 La decisione di rilocalizzare la produzione industriale a Bologna ha avuto un notevole impatto mediatico. Ha attratto l’attenzione più per la stranezza della notizia che per i presupposti che hanno originato questa azione economica. Ne è emerso un giudizio di imprenditore visionario e controcorrente, degno di simpatia per il suo coraggio, ma niente di più di un caso atipico. In realtà, alla base ci sono presupposti macroeconomici e ragionamenti competitivi che presto produrranno tanti altri casi analoghi. Il nostro non è un esempio ma il segnale di avvio di un processo. Quindi non si tratta di favorire questi investimenti ma di mettere il paese in condizioni di riceverli. La cosa è molto diversa.

In quali termini?

La Cina è passata dal comunismo economico all’economia di mercato, mettendo in gioco il suo punto di forza: la grande quantità di manodopera disponibile a prezzi stracciati e la certezza politica di far ritornare agli investitori esteri tutti i profitti che eventuali investimenti avrebbero prodotto, unitamente a una tassazione per loro favorevole. In vent’anni, questa politica ha causato il trasferimento di buona parte della produzione mondiale nel celeste impero. La Cina è diventata la fabbrica del mondo. La ricetta è stata molto semplice e gli effetti si sono manifestati rapidamente, ma adesso la situazione si sta modificando altrettanto rapidamente.

Non è più conveniente investire in Cina?

Occorre distinguere. La manodopera non qualificata viene fornita a un prezzo ancora conveniente ma le risorse tecniche, commerciali e manageriali costano praticamente come un neolaureato italiano. Quindi il vantaggio dipende dalla tipologia produttiva che si impianta, di quali forze di lavoro necessita. Da un paio d’anni, poi, la situazione cinese è in ulteriore evoluzione. La rilevante differenza economica fra la retribuzione di un operaio e di un giovane manager era dettata dalla scarsa quantità di giovani istruiti che sapessero le lingue estere, che possedessero abilità informatiche e che avessero una formazione universitaria. Oggi la quantità di laureati cinesi è enorme e si è formata una classe media diffusa nel paese. Si parla di oltre 300 milioni di persone qualificabili come ricche. Il governo ha quindi stabilito per legge una crescita dei salari degli operai da applicarsi annualmente. Sono due anni che si riscontra un aumento dei prezzi della manodopera dell’ordine del 20 per cento annuo, per ridurre il gap fra operai e staff direttivi. Insomma, il comunismo liberista sta riscoprendo la propria anima statalista. Inoltre, gli accordi internazionali sul valore della moneta cinese stanno producendo una progressiva rivalutazione dello yuan nei confronti del dollaro e quindi delle monete occidentali: dal rapporto 8 a 1 di pochi anni fa, oggi siamo a 6 contro 1.

Anche questo aspetto incide sulla competitività della produzione cinese. L’apprezzamento valutario è inoltre destinato a intensificarsi in quanto la crescita salariale sta alimentando una forte inflazione con il rischio di un aumento del prezzo delle importazioni. La Cina come fabbrica del mondo necessita di un forte import di materie prime. La valuta cinese è destinata dunque a un forte apprezzamento per contrastare l’aumento dei prezzi dei beni importati anche sulla domanda interna. A tutto ciò si aggiunge la variabile ambientale. In dicembre si è formata su Shanghai una cappa d’aria inquinata di proporzioni enormi con un’elevata quantità di polveri sottili (pm 2,5, tanto piccole da penetrare non solo per inalazione, ma anche attraverso la pelle) e per questo è stata interrotta ogni tipo di circolazione, compresa quella di treni e aerei. È stato veramente impressionante assistere allo scenario di una città da 13 milioni di abitanti, obbligati a stare chiusi in casa, che ha fermato tutte le sue attività. Questo fatto ha avuto uno scarso risalto sui media occidentali, ma noi eravamo là con il nostro staff quel giorno. È prevedibile un intervento del governo che tenda a ridurre il ruolo di fabbrica del mondo. Sono quindi tante le situazioni che stanno trasformando la Cina da paese esportatore a paese maturo, con una forte economia interna e con importazione di beni di consumo di qualità.

Prevede un esodo dalla Cina?

 Chi è andato là per produrre beni di esportazione dovrà rientrare. È diversa la situazione per i beni adeguati al mercato interno. In ogni caso si renderà necessario tornare a produrre in modo più diffuso nel mondo e i paesi con vocazione manifatturiera avranno grandi opportunità.

Quale apporto può dare la politica per consentire all’Italia di cogliere questa opportunità?

Il mercato è e rimane globale e quindi retto dal principio della competitività: il lavoro e la ricchezza si spostano e si impiantano nei paesi più disponibili alla gara competitiva. Dobbiamo pertanto competere con i tedeschi, con i francesi e con gli spagnoli, oltre che con gli americani, per poter riacquisire quote di produzione. Dovremo misurarci quotidianamente su questo punto nell’attività economica. Quindi ci vuole competitività, competitività e ancora competitività. Ma quest’analisi è distante anni luce dalla visione del mondo della politica. Nell’arco di un decennio il nostro paese ha perso circa 10 punti di competitività rispetto alla Germania, che è il nostro principale concorrente manifatturiero. Dobbiamo riacquisire lo spazio perduto e dobbiamo farlo velocemente per poter essere pronti alla nuova fase economica mondiale che l’evoluzione cinese sta producendo.

In Italia non è stato messo in discussione nulla, dalla riduzione della spesa ai costi della politica e della burocrazia, agli sprechi, all’inefficienza dell’apparato pubblico. Si discute di evasione fiscale, che in termini macroeconomici non è affatto rilevante, anziché parlare di come incrementare la produzione di ricchezza. In pratica, viene aumentata la spesa pubblica, creando disavanzo, per poi richiederne la copertura l’anno successivo attraverso l’aumento della fiscalità, incolpando di ciò un evasore, praticamente fantasma, per giustificarsi di fronte all’opinione pubblica. Questo gioco dell’oca va avanti da decenni. La spesa pubblica, pari al 23,6 per cento del PIL nel 1951, è oggi al 51,2 per cento del PIL. L’evasore viene individuato strumentalmente nella categoria degli indipendenti, che esercitano un’attività di impresa o di lavoro autonomo abituale, ma questi sono solo il 5 per cento dei 41.300.000 contribuenti IRPEF e mediamente il reddito da loro dichiarato è molto più alto di quello dichiarato dai dipendenti. Un falso comunicativo di proporzioni titaniche.

Cosa occorrerebbe fare?

La politica, anziché incolpare, dovrebbe ridare competitività all’imprenditoria, che produce la ricchezza del paese. Recentemente la Spagna ha varato riforme importanti e ha ridotto lo spread sui bond tedeschi al di sotto del nostro livello. La più significativa è la modifica del limite dei dipendenti delle aziende da non superare per avere una totale flessibilità nel mondo del lavoro. È stato portato a cinquanta. In Germania è stato introdotto il salario minimo orario di 8,5 euro per ora. Noi abbiamo bisogno di riforme analoghe.

Occorrerebbe rendere flessibile il lavoro, in modo da ridurre i rischi d’insuccesso e attrarre investimenti da parte di imprese estere e di piccoli imprenditori, per incentivarli ad aumentare le dimensioni aziendali e competere in Europa sotto il profilo della ricerca, dell’organizzazione aziendale e del capitale proprio. Occorre ridurre il livello di tassazione per le aziende che investono in sviluppo e avere un costo del lavoro compatibile al valore di mercato della propria produzione. Ciò ci consentirebbe anche di sviluppare settori ad alta intensità di manodopera come turismo e agroindustria, che è illusorio pensare di riavviare altrimenti.

Quali dovrebbero essere gli interventi normativi?

È essenziale alzare da 15 a 100 dipendenti il limite che deregolamenta le PMI e quindi sopravanzare la Spagna, introducendo, come già accade in tutta Europa, il salario minimo orario per legge al posto dei contratti unici nazionali aventi valore di legge.

Potremmo posizionarci fra i 7 euro del Regno Unito e i 4 della Spagna e quindi al di sotto della Germania. Inoltre, occorre aumentare l’ACE (acronimo di Aiuto alla crescita economica, art. 1, Decreto salva Italia) fino al 7 per cento e raddoppiarla per un limitato periodo di tempo nel caso di fusioni aziendali, per attrarre capitali e aumentare le dimensioni delle imprese.

L’ACE è uno strumento che consente di ridurre l’imposizione fiscale nelle aziende qualora aumentino il capitale proprio. Sono modifiche legislative semplici ma di grande efficacia. Emuliamo la Cina senza perdere di vista i nostri concorrenti europei.