LA FORZA DELLE COSE

Qualifiche dell'autore: 
assessore all'Urbanistica del Comune di Milano, docente del Politecnico di Milano

Sono lieto di proseguire il dibattito intorno al mio libro proprio qui a Bologna insieme a Carlo Monaco, però con lui voglio ringraziare Sergio Dalla Val per la passione e la cura che ha messo nell’organizzazione, e poi Carlo Frateschi, Francesco Montanari e Sergio Mattia, perché ci danno un’occasione per intersecare ulteriormente delle esperienze.
Incomincio dando testimonianza della mia esperienza più recente. Oggi pomeriggio, in Commissione edilizia a Milano, ho licenziato il più grande piano di riqualificazione della città di Milano, e forse in questo momento uno dei più grandi in Europa: quasi un milione e duecentomila metri quadrati di riconversione di aree dismesse, dove finalmente si riuscirà a fare il centro congressi di Milano, dove ci saranno funzioni commerciali, residenziali, servizi ecc. Sempre nella stessa commissione edilizia, esaminavamo alcuni piani di recupero redatti e progettati ancora nel rispetto della legislazione nazionale vigente del nostro paese: la legge del ‘42, il decreto sugli standard del ‘68, ecc.
È un esempio che indica che, nel nostro paese, ci troviamo in questa schizofrenia: da una parte, abbiamo una legislazione nazionale e buona parte di quelle regionali che restano ancorate ai concetti della pianificazione dirigista, totalitaria, definitoria e assolutista; dall’altra, abbiamo la forza delle cose che è venuta avanti, che ha sprigionato l’esigenza di nuovi modelli legislativi, di nuovi modelli di guida, di cura della città, che di volta in volta interpretano i bisogni che intervengono nella città.

Se penso alle esperienze che si sono sviluppate in quindici anni, dall’86 a oggi, ai programmi integrati di vario tipo e di varia natura, alle tante sigle che gli addetti ai lavori presenti conoscono bene: programmi integrati, recupero urbano, sigle a non finire, le STU e ormai la generazione doverosamente aggiornata delle STU. Oggi siamo su questo crinale, che intercorre tra un sistema di legislazione e conseguente pianificazione di stampo vetero-dirigista e una novità d’impostazione, questo modo di stare nel tempo, con il tempo e di vivere le esperienze nel farsi. Credo che se, attraverso questi incontri, riuscirermo a dare un contributo a riformare la legislazione urbanistica del nostro paese, avremo fatto un bel lavoro, proprio perché non è possibile andare avanti ancora troppo tempo in questa convivenza.
Oggi occorre far capire che tutti sono nella vicenda della città. E tutti ci sono anche con i ruoli che esercitano. Io stesso, nel momento in cui non facevo attività politica, ho fatto l’ingegnere e l’ho fatto da ingegnere, non sostituendomi al politico del momento. Lo dico perché, per un lungo periodo, confondendo i ruoli del politico e del tecnico, molte amministrazioni hanno dato al tecnico l’incarico di fare il piano regolatore, senza nessun oggetto di commessa. E allora sono venute fuori cose disastrose. Ma questa mancanza di responsabilità nell’esercitare il proprio ruolo è stata ancora più pesante, come mostra, per esempio, un’esperienza in Lombardia di sette-otto anni fa, quando l’INARC Lombardia voleva assegnare un premio alla più bella opera pubblica realizzata. Ebbene, nonostante siano state proposte un centinaio di opere pubbliche, il premio non è stato assegnato, perché nessuna è stata ritenuta meritevole. Ma alla base di questa mancata assegnazione c’è stata una riflessione molto bella e profonda: le opere pubbliche che avevano partecipato non avevano avuto all’origine una commessa seria, non c’era stato un input serio da parte della pubblica amministrazione, del sindaco, dell’assessore e dell’amministrazione comunale. Dunque, aver cura vuol dire anche riportare ciascuno alle giuste responsabilità e ai giusti ruoli. L’ingegnere ricominci a fare l’ingegnere della città. 
L’ingegnere della città è quel Leonardo da Vinci che ci parlava della città, ma non solo quella che si vede sopra, quella che si deve realizzare è anche sotto o di fianco. L’urbanistica dei retini e delle destinazioni fatte con i pennarelli era quella che pensava soltanto alla bidimensionalità. Invece, nella città ci sono più dimensioni: c’è la città che sta sotto, ci sono le viscere della città, quelle naturali e quelle da costruire, c’è la città che sta sopra, tutto il sistema delle relazioni.
È un punto di lavoro forte, noi abbiamo bisogno che le scuole d’ingegneria e di architettura, e così il Politecnico di Milano, si risollevino molto nella qualità, abbiamo bisogno che escano da una fase ancora un po’ grigia – è stata peggio in passato – e preparino operatori di questo nuovo modo di governare la città. Perché oggi questi progetti con le formule del project financing, delle società di trasformazione, della concertazione, non vedono attori sufficientemente preparati: l’imprenditore dialoga con l’amministrazione, ma i nostri corrispondenti collaboratori poi non sono capaci di strutturare e di rendere operative le proposte. Quindi, c’è un grandissimo problema di preparazione di una classe dirigente capace di governare i processi di trasformazione sul territorio.

A proposito di controlli, occorre dire che noi siamo il paese dei controlli. Addirittura nella Costituzione c’è un’esasperazione di controlli incrociati, la presunzione del sistema in cui viviamo è che si possa e si debba controllare tutto, con la conseguenza che in effetti non si controlla nulla. Occorre invece una funzione di controllo in termini di verifica del risultato: se il risultato è raggiunto il controllo è stato esercitato, se il risultato non è raggiunto vuol dire che è saltata l’operazione. Come nella costruzione di un oggetto, se nella costruzione di un oggetto non si realizza l’oggetto vuol dire che è fallita l’operazione, se lo si realizza vuol dire che è buono. Il controllo ha poi naturalmente il suo punto di riferimento politico al momento della verifica elettorale. 
C’è un ulteriore punto di riflessione. La tradizionale pianificazione è molto più facile perché è l’emanazione di una posizione che qualcuno genera sulla città, non ha bisogno di grandi studi e di grandi analisi e non ha nessuna attenzione al confronto dell’idea con gli operatori, con la città. Ha solo l’esigenza forte che il piano sia formalmente ratificato, perché quello è il momento che dovrebbe risolvere tutto. Poi abbiamo visto che non ha mai risolto niente. La pianificazione non dirigista, invece, la cura della città, ha come presupposto un vissuto dentro l’esperienza, la capacità di continuare a vivere le evoluzioni, vale a dire un impegno continuo nel tempo, da parte di tutti gli operatori. Però bisogna essere sinceri e chiari: le cose che riguardano il territorio possono avere anche punti di arrivo in tempi brevi – alcune regolamentazioni possono dare effetti importanti anche nell’arco di pochi mesi –, ma le vere grandi strategie hanno effetti che si sviluppano poi nell’arco di decenni, non di poche settimane o di pochi mesi, e sicuramente non saranno remunerative nell’immediato ai fini del consenso politico. Per questo motivo, fare scelte di grande strategia politica molto spesso vuol dire andare contro corrente. 
Fare urbanistica è cercare il punto d’incontro tra varie istanze sociali e temporali. Sto lavorando sul programma “Urban II” a Milano, collegato alla Comunità Europea, concernente una periferia. Il punto d’approccio è questo: che energie abbiamo e come possiamo farle scatenare per trasformare positivamente questo territorio? È un atteggiamento esattamente inverso a quello dirigista o assistenzialista. Far venir fuori le energie presenti nella periferia, dove sembra che non ci sia niente di buono. Ad esempio, a Milano, nelle zone semiperiferiche o periferiche ci sono più giovani rispetto alle altre zone della città. E allora pensate alla differenza e ai vantaggi tra queste zone e quelle dove ci sono i vecchi o dove c’è un abbandono per via delle funzioni che non animano la città.
Uno spazio importante nelle riflessioni del mio libro è dedicato al concetto di sussidiarietà, non quella tra livelli istituzionali, bensì quella tra i soggetti e le istituzioni con un ruolo fondamentale proprio delle persone, dei gruppi e delle organizzazioni, a seconda dei livelli d’impegno, fino al ruolo della persona come protagonista dentro la città. Pensare a una città che sta nel tempo vuol dire pensare a una città nella quale l’uomo ritorna a essere protagonista, differente dalla città che hanno cercato di pianificare, che aveva come obiettivo quello di non consentire la cittadinanza della persona e il ruolo della persona. La pianificazione dirigista è proprio quella che faceva in modo che una persona lavorasse per otto ore nella fabbrica, si spostasse dalla fabbrica a casa, impiegando un’ora all’andata e una al ritorno, e che le funzioni sociali venissero esercitate tutte dal pubblico. Ma questa era la negazione dell’uomo.