LA CITTÀ DELL'ALTRO
La città come civitas
esiste soltanto in seguito all’instaurazione dell’Altro, mentre la città come polis, come comunità fondata sulla politica del luogo
comune, da Platone e Aristotele fino a oggi, si è risolta in un ideale di
partecipazione al governo sulla
città, in cui la città diviene di tutti, di pochi, di molti, ma mai dell’Altro.
Tutt’al più, la politica del luogo comune ha economizzato l’Altro,
socializzandolo nella dicotomia amico/nemico, universo/diverso, sano/malato.
Anche in questi giorni, non è raro che politici di varie provenienze appoggino
l’impresa sociale, come “terzo settore a metà fra stato e mercato”. Ma che cos’è
il sociale? Senza indagare sul termine, niente di più facile che radunare sotto
l’etichetta di impresa sociale attività contro il sociale, segregative, come le
comunità “di recupero” di ex tossicodipendenti o di minori che hanno subito
violenze o di ex detenuti. Quante di esse costituiscono dispositivi
intellettuali in cui non ci sono ex tossicodipendenti, minori violentati ed ex
detenuti, ma persone che ragionano, analizzano, progettano, pensano, parlano,
sognano, nonostante e in virtù delle vicende avverse o propizie della loro
vita? Il più delle volte, siamo costretti a constatare l’ignoranza, da parte
degli operatori, volontari o stipendiati, di un secolo di ricerca, di
psicanalisi, di civiltà. Troppo spesso, chi fa volontariato nelle comunità è
totalmente sprovvisto di strumenti – soprattutto di strumenti intellettuali
indispensabili perché ciascuno affronti il nodo della propria vita – e incorre
in due abbagli: la rappresentazione dell’Altro nel cosiddetto diverso, o
drogato, o malato, o vittima, rappresentazione che costituisce la base di ogni
segregazione; e la rappresentazione di sé nell’Altro, rappresentazione da cui procede
l’idealizzazione del cosiddetto diverso, o drogato, o malato, o bisognoso, o
vittima, fino a voler diventare come lui. Non a caso, molti giovani hanno
incominciato a fare uso di droghe dopo che hanno incominciato a occuparsi del
cosiddetto recupero di tossicodipendenti ospiti di comunità o frequentatori
dello stesso gruppo di amici. Chi vede il male dinanzi si adopera perché il
male finisca presto e trionfi il bene. È ciò che accade, gnosticamente, a chi
ritiene che per capire chi soffre occorra soffrire.
Non è facile incontrare ciascuno, senza rappresentarsi il
bene o il male e i loro paladini. Per questo, l’impresa sociale, l’impresa che
instaura la città e la civiltà – che sono la base del diritto dell’Altro, su
cui si fonda la societas –, o è intellettuale
o non è. L’impresa sociale che occorre promuovere è quella culturale e
artistica, l’impresa che interroga ciascuno – il poeta, il pittore, l’imprenditore,
l’insegnante, lo studente, l’operatore, il politico, l’impiegato, il
finanziere, il pubblicitario, il giornalista, l’artigiano e ciascuno lungo il
proprio viaggio – intorno al progetto e al programma di vita, dandogli
occasioni d’incontro, di dibattito e di scrittura, occasioni in cui il pubblico
non è domestico, locale, o settoriale.
Il libro di Gianni Verga Come avere cura della città (Spirali) è un laboratorio, che prosegue con
dibattiti in varie città, da cui emerge l’esigenza di una città dove la parola –
e il disagio intoglibile con cui le cose s’introducono nella parola – non sia
confiscata, espunta, localizzata. Troppo comodo pretendere di contenere il
disagio nella coppia, nel gruppo, nella comunità o nella cosiddetta “struttura
protetta”. La città gode di ottima salute e non ha bisogno di recinzioni, se la
sua immunità procede dall’Altro, non dalla sua rappresentazione o dalla sua
soppressione. Ma non c’è l’Altro senza il fare. La salute della città dipende
dal ritmo delle cose che si fanno secondo l’occorrenza, non secondo il
principio di selezione e di elezione. Chi si dà da fare pensando di aiutare
qualcuno sta solo affaccendandosi per evitare il rischio assoluto che c’è nel
fare. “Facendo, nessuno toglie nulla all’Altro. Non facendo, ognuno toglie all’Altro
l’infinito”, scrive Armando Verdiglione nell’Albero di San Vittore. Definire impresa sociale quella in cui l’Altro è
rappresentato, quindi, è inaccettabile per chi da oltre trent’anni sta facendo
una battaglia per il diritto dell’Altro, indispensabile alla città del secondo
rinascimento.
Il libro di Verga è importante perché chi si è sempre
occupato di spazi, di muri e di mattoni avverte l’esigenza di andare oltre il
campo di pertinenza. Solo così, anziché luoghi di segregazione o di reclusione
spacciati per spazi di protezione, costruiremo nelle banche, nelle aziende,
nelle case, nelle scuole, nelle case di cura e di riposo, gallerie d’arte,
musei, librerie e biblioteche. Il bello procede dalla differenza e dalla
variazione costanti. Questo sottolinea Verga, ossia che la città è stata
abbruttita dalla monotonia con cui una certa urbanistica ha concepito il luogo
per lavorare, quello per dormire e quello per governare, nettamente separati e
distanti fra loro. Oggi, a Bologna, a Milano, a Modena e in altre città, alcune
banche hanno incominciato a organizzare mostre d’arte nelle proprie sale
interne, ma fino a che punto, per alcune, tale attività non viene subito
finalizzata al reperimento di nuovi clienti? È un problema politico la
direzione di una banca o di un’azienda, anche nelle scelte di immagine, perché
chi pretende di decidere sull’estetica pretende di decidere sul gusto e sul
godimento. Certo, non esiste imperativo del godimento, ma proprio per questo
solo l’impertinente è ciò che lascia godere. Lascia godere non il possesso in sé
di un bene, come il diritto stesso sottolinea, ma la proprietà, che è sempre
proprietà intellettuale. Il libro di Verga è importante perché dà un contributo
al dissolversi del fantasma di padronanza sulla città. La cura di un bene
presuppone la capacità di trarne frutti, non di farne ciò che si vuole. La
casa, come la città, diviene un bene quando da essa non è escluso il fare, l’Altro,
il pubblico. La casa e la città su cui vigesse il diritto di chicchessia
sarebbero esposte alla rovina. Per questo occorre pensare la città e la casa
come patrimonio dell’umanità, come il mare, il cielo, le stelle, il sole, le
galassie, la musica e le opere d’arte, patrimonio su cui soltanto l’Altro può
vantare il proprio diritto.