L’ITALIA È VOTATA ALL’ECCELLENZA
Ormai troppo spesso sui media viene paventato il declino della manifattura nel nostro paese. Che cosa può dirci a questo proposito, a partire dalla vostra esperienza di laboratorio tecnologico che offre servizi e soluzioni innovativi ad aziende di eccellenza di settori importanti come la meccanica e l’aerospaziale?
Indubbiamente, il mondo è cambiato, il manifatturiero dei grandi numeri non trova più posto in un paese con costi strutturali significativi – dovuti alla maggiore qualità di vita, ma anche ad una notevole propensione agli sprechi – e si sposta sempre più verso i paesi emergenti, mentre noi siamo chiamati a produrre le eccellenze. Anche i paesi emergenti fanno la loro corsa per tenersi al passo con le nuove tecnologie e in alcuni settori sono decisamente avanzati. Tuttavia, non si tratta di cultura e tecnologia diffuse, ma piuttosto di eccellenze che non trovano poi riscontro nella media delle attività industriali, cosa che invece caratterizza i nostri settori produttivi. In breve, un secolo di meccanica avanzata, di automotive, di racing, di aeronautica, sviluppatisi sul nostro territorio, ci dà indubbiamente un vantaggio competitivo sensibile, purché, ovviamente, restiamo focalizzati sulle competenze e sulle elevate tecnologie.
Ecco perché la delocalizzazione di attività con cicli di produzione non standardizzabili sui grandi numeri è impossibile, perché non basta spostare macchinari e disegni.
Questo indica una strada molto precisa per l’Italia: focalizzarsi sull’eccellenza dei prodotti, alzare il livello tecnologico della competizione, sfruttare appieno le potenzialità date dalla conoscenza diffusa e dalle competenze distintive in merito a progettazione, materiali, processi, facilità di reperire ciò che serve, direttamente sul territorio, spesso a pochi chilometri di distanza. Nel nostro paese, che è la seconda manifattura d’Europa, non possiamo limitarci a fare ciò che anche gli altri fanno: dobbiamo cercare di allontanarci il più possibile dall’uso della congiunzione “anche”. Dobbiamo perseguire la strada della specializzazione, con prodotti e servizi ad alto valore aggiunto, che solo noi possiamo fare in un determinato modo e per un mercato ben definito. Essere votati all’eccellenza e alla qualità non vuol dire semplicemente lustrare il logo aziendale e fare un bel catalogo pubblicitario: il valore aggiunto si ottiene investendo sulla cultura delle persone, su sistemi di produzione, e anche di relazione, innovativi; per esempio in molti casi è necessario superare il concetto di concorrenza a cui siamo abituati. A volte il concorrente può essere un alleato o quantomeno qualcuno con il quale condividere conoscenze non distintive e strategiche, allo scopo di abbattere costi e/o ottenere facilitazioni in alcune fasi di processo. Occorre poi investire sul rischio d’impresa che sempre più in Italia è un rischio paese, essendo influenzato da ciò che accade fuori dall’azienda. Indubbiamente la fiducia degli imprenditori italiani è messa a durissima prova: dovere fronteggiare le sfide dei mercati senza poter contare su un “sistema paese” e vedersi poi portare via dal fisco il 60 per cento degli utili determina qualche perplessità a investire in Italia. Non parliamo poi di attrazione di investimenti dall’estero.
Allora, è vero che, come dicevo, nel nostro paese c’è spazio solo per l’eccellenza, ma occorre che lo stato si meriti l’eccellenza, si meriti i soldi delle tasse, altrimenti le nostre aziende hanno tutte le ragioni per trasferire la loro sede in altre nazioni dove trovano grande accoglienza e vantaggi concreti. Anche il sistema di relazioni industriali non è più adeguato. È incongruente che da un lato si agisca per prolungare la vita lavorativa, portando la soglia della pensione oltre i 65 anni, e contemporaneamente non si faccia nulla per evitare che per un lavoratore, già dall’età di 45 anni, sia problematico ricollocarsi. La soluzione sta nella formazione continua e nella riconversione delle competenze. Questo sarebbe un sistema di protezione e di valorizzazione della persona in linea con la necessità di eccellere.
Non è vero che siamo in declino, anzi, abbiamo un avvenire promettente, soprattutto se sapremo cogliere l’opportunità di essere un paese unico al mondo per cultura, per arte, ma anche per manifattura e tecnologia. Certo il rischio d’impresa è ineludibile e chi dice che oggi non ci sono più garanzie per il successo sta accampando scuse per non impegnarsi: le garanzie per il successo non ci sono mai state; se è questo che cerchiamo, non siamo imprenditori.
L’economista Emilio Fontela diceva che dobbiamo andare sempre più verso una società dove non ci siano assistiti e salariati, ma brainworkers che danno il proprio contributo, perché il lavoro sia un contributo, non un’occupazione che si svolge in un posto...
Certamente, Fontela vedeva lontano. Il lavoro intellettuale è sempre più slegato dal luogo fisico, dal “posto” ed è invece uno “stato mentale”: lavoriamo anche mentre siamo sull’autobus o attendiamo i nostri figli o nipoti all’uscita da scuola e, se ci viene un’idea, possiamo iniziare a svilupparla, abbiamo tutti i mezzi per trasmetterla, condividerla, riceverne feedback. Questo dovrebbe portare, laddove è possibile, a una maggiore flessibilità. In pratica è sempre più sottile la separazione tra “tempo di lavoro” e “altro tempo” e tutto diviene “tempo di vita”.
La partita che deve giocare l’Italia è quella intellettuale…
Sicuramente, e chi se ne rende conto deve fare lo sforzo di parlarne in famiglia, educare i figli in tal senso, parlarne con i collaboratori, chiedersi sempre se le cose che facciamo siano in direzione della valorizzazione del nostro patrimonio culturale, anziché arroccarsi sul già detto e sul già fatto. Chi dice: “Ma noi abbiamo sempre fatto così” vive di ricordi. In azienda le fotografie sbiadiscono in fretta, la vita d’impresa, come la nostra, è un divenire continuo. Facciamo in modo che sia un percorso che tende all’eccellenza.