INVESTIAMO NEL MANIFATTURIERO E NELLA MECCANICA

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presidente di Sefa Holding Group S.p.A., Bologna

Di recente l’Italia è uscita dal novero degli otto paesi più industrializzati. Tuttavia non sembra che si stiano adottando politiche di rilancio dell’industria e dell’impresa nel paese, mentre gruppi strategici per la nostra economia sono spesso messi in ginocchio e svenduti a nuovi compratori esteri. Cosa ne pensa? 

Ci sono settori strategici di un paese che non possono essere messi in discussione e casi come Telecom dimostrano che c’è una diffusa indifferenza verso la programmazione di una vera politica industriale. A riprova di questa non scelta, ricordiamo che negli ultimi anni sono stati assunti molti precari e consiglieri comunali, potenziando gli uffici di strutture gerarchiche e amministrative per il tornaconto di politici senza etica. Finché c’era un milione di lavoratori in più, anziché cinquecentomila in cassa integrazione, forse queste operazioni di opportunismo elettorale erano possibili, ma adesso come saranno finanziate queste posizioni? Intanto, sono aumentate fino a cinque miliardi le ore di cassa integrazione in cinque anni di crisi. È ormai evidente che manca l’apporto di ricchezza della gran parte del settore manifatturiero, mentre si fanno politiche naturaliste a favore della decrescita, ancora una volta fondate sul pregiudizio che chi produce inquina. Occorre riflettere, invece, sul dato che lo squilibrio economico del paese è causato soprattutto dalla mancanza di un milione e 800 mila posti di lavoro in poco più di cinque anni, mentre sono oltre tre milioni i disoccupati in Italia (che arrivano a sei, considerando anche i cosiddetti “scoraggiati”, come indicano gli ultimi dati Istat). Si noti che nel solo manifatturiero la Germania impiega 5,2 milioni di persone. In altre parole, gli italiani che non trovano lavoro consumano sempre meno e non contribuiscono al gettito fiscale. Assistiamo al paradosso di una politica che scoraggia la produzione e vessa le aziende che resistono con l’aumento dell’Iva, mentre il 60 per cento della ricchezza del paese è in mano al 10 per cento della popolazione. Come si può avere un’economia soddisfacente e servizi adeguati, se non si creano le condizioni perché il ceto medio possa consumare?  

Cosa sta accadendo in Italia nel settore siderurgico?

Quando chiude anche uno solo degli stabilimenti di questo settore, quando si annienta la cultura di chi produce, è difficile che si possa ricostruire. Per questo ritengo che la chiusura dell’Ilva porterà a conseguenze irreversibili. La siderurgia italiana è in crisi perché sta perdendo pezzi fondamentali della sua storia e di quella del paese, anche nelle persone che hanno contribuito a scriverla, come Luigi Lucchini e Steno Marcegaglia, mentre sono sempre di più gli operai con maggiore esperienza incentivati a lasciare l’azienda e incassare subito la buonuscita. Questa situazione del settore manifatturiero è stata certamente un elemento che ha portato al declassamento dell’Italia, fuori dal gruppo dei paesi industrializzati. In Germania, almeno, sostituiscono gli operai che vanno in pensione con operai qualificati, in particolare italiani, che hanno il pregio di avere la cultura della manualità, nonostante ricevano uno stipendio che è la metà dei loro colleghi tedeschi. Nelle aziende italiane non c’è questa discriminazione.

Quali sono gli asset per fare ripartire l’industria italiana?

È difficile dirlo. Persa la grande occasione del nucleare, occorre ridisegnare una nuova strategia industriale. Tuttavia, non è facile senza acciaio, senza alluminio e senza materie prime, soprattutto per l’industria delle macchine automatiche, per la quale è strategico l’approvvigionamento. Questa situazione è penalizzante se consideriamo che avremo costi più elevati quando saremo costretti ad acquistare dall’estero, perché un pezzo di ferro a chilometro zero ha un valore, ma oltre i mille chilometri non è più conveniente. A questo si aggiunge il peso della burocrazia, che rende estremamente lenti gli uffici pubblici nella tempistica per la concessione di permessi: proliferano le richieste di lettere liberatorie, necessarie perché nessuno vuole assumere responsabilità, talvolta anche solo per l’apertura di un’attività. 

Sottolineo con estrema decisione che oggi i nostri sforzi devono andare in direzione soprattutto della conservazione di ciò che c’è già, pertanto occorre salvaguardare il patrimonio di aziende che da decenni contribuiscono alla ricchezza del paese. Perché ci sia davvero la ripresa occorre intervenire con urgenza su tre aspetti: materie prime, incentivi economici alle attività produttive per favorire l’acquisto di attrezzature tecnologicamente avanzate e assunzione di giovani, come peraltro già avviene in Austria e Germania. In questo modo alle nuove generazioni si offrono i vantaggi che derivano da una formazione qualificata e dal lavoro, più che dalla spettacolarizzazione dei premi facili che si vincono in tv.

Sempre più numerose aziende italiane investono all’estero, perché altrove trovano politiche più attente all’impresa…

Il nostro caso è molto specifico. Lavorando titanio abbiamo la possibilità di andare all’estero, facendo qui quello che possiamo fare anche in altri paesi come Olanda, Germania o Turchia. Del resto, circa il 25 per cento del nostro fatturato viene dalle vendite estere. In questi paesi non abbiamo sedi ma abbiamo rapporti consolidati. Il mercato italiano è in contrazione ed è troppo piccolo per noi. Oggi, tutte le industrie che vanno bene hanno un rapporto bilanciato di vendite nazionali ed estere e per alcuni tipi di produzione la quota export è maggiore che in Italia. Nel settore del packaging, ad esempio, ammontano al 90 per cento le vendite estere, per questo nonostante tutto è ancora un’industria prospera. Per altri settori come il nostro, invece, è più difficile imporsi all’estero, dove inizialmente può intervenire una diffidenza per gli italiani. Per fortuna, il pregiudizio si dissipa quando si riesce a superare il primo impatto e a dare prova di professionalità. Una nota azienda belga, per esempio, è rimasta colpita favorevolmente da Sefa per la capacità di risolvere le diverse problematiche del settore. Se, ad esempio, hanno bisogno di stampi per il packaging, noi abbiamo modo di farglieli pervenire in tempi rapidi, grazie all’esperienza maturata in più di quarant’anni di attività. Abbiamo stabilito collaborazioni molto interessanti anche con alcune aziende israeliane e russe, che hanno grande fiducia nel nostro servizio. All’estero notano con favore l’importanza che noi diamo alle collaborazioni con altre aziende italiane di produzione, anche se lì la stretta di mano non basta e occorre sempre formalizzare gli impegni. Tuttavia, per noi è sempre e comunque una questione di parola. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le migliori aziende italiane che avviano collaborazioni all’estero sono ritenute partner preziosi e insostituibili. Questo è lo stile italiano che ci ha reso famosi nel mondo. 

Mentre in Italia possiamo dire che nemo propheta in patria est… 

In Italia ci troviamo di fronte a continue ostilità da parte del sistema politico, burocratico e amministrativo, anche solo per la formazione professionale e l’assunzione dei collaboratori, tanto che, pur avendone bisogno, tante aziende ne fanno a meno.

Occorre poi considerare il rapporto con le banche, che se finora, nella maggior parte dei casi, hanno orientato le loro politiche in investimenti finanziari, attualmente sono rivolte alle aziende. Tuttavia, il sostegno alla produzione è ancora frenato non solo dalla pressante burocrazia per la cessione dei fondi alle imprese, ma anche obiettivamente a causa dell’incertezza del sistema paese che non permette all’impresa un ritorno sicuro degli investimenti. La conseguenza di tutto questo è che l’impresa riduce gli investimenti e la crescita, cercando di evitare i frequenti casi di profitto con incasso incerto. Se con la politica della finanza choc, l’impresa era snobbata, con l’incertezza della politica economica, ancora una volta è penalizzata la parte produttiva del paese.

C’è però un altro settore su cui vorrei soffermarmi, quello dell’energia e in particolare del fotovoltaico, che rappresenta bene lo squilibrio del sistema paese che non favorisce una programmazione equa fra le vecchie e le nuove tecnologie in una fase di decrescita in cui si registrano cali di consumi di energia incidendo in modo considerevole sui costi dello sviluppo. 

Qualcuno si è chiesto come riescono le imprese italiane a pagare l’energia elettrica il 25 per cento in più degli altri paesi? Anche questo fa parte di una politica economica che deve essere più attenta al settore produttivo. Credo che il rilancio debba basarsi sulla logica del fare gruppo, cercando di non perdere le professionalità e le esperienze che fanno la storia di ciascun settore, incentivando le collaborazioni con l’estero, soprattutto per gli approvvigionamenti di materie prime, facendo attenzione all’aggiornamento costante e alla presenza continua e puntuale sul territorio. Un distretto estremamente interessante per numero di aziende, per competenza, per intensità di produzione, per qualità di manodopera, per cultura del lavoro industriale, soprattutto nella meccanica, oggi è indubbiamente quello di Imola. Tuttavia, queste eccellenze si dileguano man mano che si procede nella penisola verso Sud, dove la produzione industriale, soprattutto meccanica, si dirada fino quasi a scomparire. 

Mai come oggi occorre favorire l’acquisto di nuovi macchinari, che giovano alla qualità e alla velocità di produzione e comportano vantaggi enormi in termini di mercato. Nella nostra azienda, ad esempio, abbiamo acquistato una macchina per il taglio del titanio che ci fa risparmiare tempo e il 50 per cento dei costi rispetto alla precedente. 

Vorrei ricordare che in Emilia possiamo fare praticamente qualsiasi cosa nel campo meccanico, nonostante la crisi abbia colpito il mercato dei motori. Questa capacità viene da lontano, da una storia e da una cultura che è urgente valorizzare proprio in questo momento. Non dimentichiamo che nel dopoguerra sorsero proprio nel nostro territorio oltre trenta aziende per la sola produzione di motorini, tutte di eccellenza. Nonostante le difficoltà, la strategia da attuare è ancora quella di investire nel manifatturiero e nella meccanica.