L'IMPRESA CHE COSTRUISCE VALORE
Intervista di Anna Spadafora
Dalla testimonianza che emerge leggendo il suo libro, Il più bravo degli asini, nell’impresa che costruisce valore importano soprattutto gli uomini che fanno l’impresa. In che modo l’esempio giova alla direzione di un’impresa verso la qualità?
Prima di tutto chi dirige un’impresa che crea valore deve essere portato più a dare che a prendere. Chi è portato a prendere può fare solo un’impresa che non serve agli altri, ai tanti, alla collettività. Questo è importante. Poi, è chiaro che occorre anche avere capacità, passione, tolleranza, occorre capire e sopportare anche cose e persone che non è facile capire e sopportare. Fare l’imprenditore in un’impresa sociale, per i tanti, è come fare il missionario. Chi fa il missionario nel vero senso della parola fa qualcosa che altri non farebbero. Penso che a questo sia dovuta la mia permanenza per ben trentasei anni alla presidenza e dieci alla direzione generale, a questa mia vocazione per l’impresa sociale. Non sarebbe stato così se avessi fatto qualcosa a fini personali: se qualcosa è mia posso anche non badarla, ma se è di qualcun altro devo averne cura e devo darne conto…
Qui veniamo a un punto essenziale dell’argomento di questo numero della nostra rivista: la cura, la cura della città, la cura dell’impresa…
La cura è molto importante, è indice di serietà e d’impegno e vuol dire avere considerazione degli altri, essere più dalla parte del dare che del prendere. La società è divisa in due strati, chi prende e chi dà. Purtroppo, chi dà, apparentemente, ha meno vantaggi; ma poi è contento lo stesso perché fa cose che vanno verso la qualità e questo viene riconosciuto. Questa è la base per costruire valori, per costruire civiltà, questo dare che non aspetta un tornaconto, se aspetta un tornaconto è intenzionale, opportunistico, e passa dalla parte di quelli che sono portati a prendere.
Quando parliamo di uomini parliamo di formazione. Lei ritiene che l’impresa che crea valore costituisca una base per la formazione?
Certo, l’impresa contribuisce all’educazione, anche se non nella stessa misura della famiglia e della scuola. L’impresa è fatta di costi e di ricavi, di uomini che producono e danno e di uomini che producono e prendono. Quindi, chi dirige un’impresa deve gestire cose molto differenti fra loro e per questo l’impresa non può essere paragonata alla scuola o alla famiglia. Certo, a volte l’uomo viene messo alla prova non tanto per la sua bontà quanto per ciò che produce e dà all’impresa, perché l’impresa non vive di speranze ma di fatti…
Molte persone che l’hanno incontrata o che hanno lavorato con lei la definiscono anche maestro di vita, non solo di mestiere e di arte. Come si diviene maestri di vita?
In un’impresa l’esempio di chi dirige ha molta importanza. Se chi dirige dà esempi negativi, chi gli sta attorno non può trarre alcun beneficio. Di solito c’è una separazione tra chi comanda e chi esegue, ma ciò non vale in questo caso; chi comanda, per dir così, deve dare l’esempio sotto tutti gli aspetti: deve rispettare gli orari, dev’essere puntuale, se promette qualcosa a qualcuno deve mantenerla. In un’azienda cooperativa, se chi dirige non dà l’esempio non può fare certo il presidente, perché la gente non lo riconosce: se sono qui è perché ho avuto per diversi anni tutti i voti segreti, escluso il mio, da tutte le forze politiche – in periodi in cui c’erano comunisti, fascisti, repubblicani e democristiani –, perché, evidentemente, sono riuscito a comportarmi in modo tale che andava bene anche alle forze politiche con opinione diversa, sono riuscito a fare lavorare i soci e a far loro ottenere una retribuzione, cosa che prima non accadeva. Questo è un merito che mi hanno riconosciuto. Per questo all’interno dell’impresa non si può pretendere di essere leader indiscussi, occorre umiltà per capire gli altri, non credere che gli altri non capiscano nulla. Bisogna ascoltare le persone. Poi, occorre ascoltare e ricordare, se dicono cose interessanti, altrimenti, è meglio ascoltare e dimenticare…
Lei racconta che l’esigenza primaria della sua cooperativa non doveva essere quella di avere privilegi e vantaggi ma di trovare lavoro. C’è qualcosa che sfiora il sacro nel modo in cui lei parla del lavoro…
Il lavoro è sacro, regge l’intera impalcatura sociale. Il lavoro è molto importante e in un’azienda cooperativa, se manca il lavoro, mancano i presupposti fondamentali. Chi dirige un’impresa cooperativa deve cercare giorno e notte il lavoro per i suoi soci. Occorre pensare sempre al domani e il lavoro è molto importante, anche se non è premiato come dovrebbe, oggi sono premiati i vagabondi, coloro che vendono la droga, un mucchio di persone che, se fossimo in una società più civile, non sarebbero premiate. Dovrebbero premiare i bravi tecnici, gli scienziati, i bravi lavoratori, coloro che si danno per il lavoro e l’impresa, e allora la società cambierebbe, per arrivare al centuplo, anziché impiegare cento anni ne impiegherebbero solo ottanta. Per questo, in fondo, lo stesso capitalismo è il male minore, la sua alternativa finora è stata la dittatura.
Nel suo libro definisce suo padre “un tipo in gamba, che suonava il clarino e citava quasi tutta la Bibbia a memoria”. Può avere influito questo gusto per il racconto e la citazione biblica sul suo gusto per il racconto e la scrittura?
Senz’altro. Un uomo in gamba, laborioso, onesto e serio, che, pur avendo frequentato la terza elementare, a diciassette anni era andato in Argentina, aveva fatto anche l’attore, e citava la Bibbia a memoria, certamente ha influito sul mio modo di operare e di capire. D’altra parte, non avevo altre persone intorno, c’era solo lui, il valore era quello per me, parlavo con lui e questo contribuiva a far sì che io imparassi qualcosa. Purtroppo, ha vissuto in un periodo che non era del tutto propizio, chi voleva studiare doveva prendere i voti. Ma lui non aveva questa vocazione e andò in Argentina.
Si può dire che la sua storia si è sempre intrecciata con la storia della sua azienda?
Io non sono mai stato lontano dal posto di lavoro, anche da bambino avevo delle responsabilità.
Vivevo con la mia famiglia in una carovana, sempre sulla strada, una vita da nomade, ma questo voleva dire essere sempre vicino al lavoro. Il lavoro era la nostra vita. Non si può essere lontani dal lavoro. Se uno sta lontano dal lavoro pensa a qualcos’altro e viene deviato. Per noi il lavoro era come la terra per il contadino, il bravo contadino è sempre sulla terra, e così eravamo noi, il lavoro era il motivo primario della nostra vita. La vita e il lavoro erano la stessa cosa, il lavoro non era strumentale, ma essenziale.