CRISI E SUICIDI
Negli ultimi tempi siamo ormai abituati a sentire parlare di crisi, termine che però ammette una duplice lettura. C’è la crisi che tutte le sere è ritualizzata da talk show e telegiornali, tanto da risultare quasi meno reale e più cinematografica, e poi c’è la crisi vera, quella che per me incomincia ciascun giorno alle 8.00 del mattino, quella che mi raccontano gli imprenditori nelle aziende e che è indicata da dati incontrovertibili.
In Italia, nel 2012, 41 aziende al giorno hanno chiuso i battenti. Non era mai accaduto in nessun periodo della storia recente. In tre anni il numero dei disoccupati è aumentato di un milione e mezzo, attestandosi a un totale di 11,8 milioni, che si traduce nel 36 per cento di giovani disoccupati. In Italia, la media dei giorni di attesa per i pagamenti è 184, mentre nel resto d’Europa è di 42. Rispetto al 2011, il credito alle imprese è diminuito del 4 per cento in generale e del 6 per cento per le imprese che hanno fino a venti dipendenti, ovvero tutto il settore dell’artigianato, che così si colloca al di sotto di questa soglia. Nel nostro paese, la pressione fiscale effettiva su una piccola impresa, che si calcola sul reddito d’impresa, è del 68,5 per cento, un dato che ci situa ai vertici delle classifiche mondiali. Un’impresa deve dedicare alla gestione del pagamento delle imposte, mediamente, 288 ore in un anno. Se un’azienda strutturata riesce a fare fronte a questo gravoso impegno, una piccola azienda non ha le risorse necessarie. Nel nostro paese l’energia costa circa il 40 per cento in più rispetto agli altri stati. In particolare, il costo dell’energia elettrica è del 48 per cento, quello dei trasporti del 15 per cento. Per non parlare dei costi della giustizia: 1200 giorni in media per avere ragione di un credito a cui quasi nessuno si oppone e per il quale il debitore è ampiamente tutelato, mentre il creditore ha sempre la peggio.
Questo è il terreno di coltura in cui nascono le situazioni di disagio che assurgono agli onori della cronaca. Finora il modello veneto, basato sulla combinazione tra famiglia e impresa, aveva funzionato. Ma quando il modello veneto è entrato in crisi, è subentrata la solitudine, il disagio e il disonore per non essere in grado di fronteggiare le difficoltà, con il rischio di compiere scelte drammatiche. Il modello veneto è quello della piccola impresa basata su un’equazione a quattro cifre: la famiglia, l’impresa, i dipendenti e i fornitori, un contesto in cui si stabiliscono valori forti legati alla società, valori che producono certezze e stanno alla base della vita dei nostri imprenditori. Quando queste regole vengono meno, ed è quello che sta succedendo, subentra il disorientamento: non si parla più la lingua del cliente che pagava, del fornitore che veniva pagato, del dipendente di cui si teneva a battesimo il figlio, del direttore della banca con cui si andava a prendere il caffè e che concedeva il credito quando era necessario per l’impresa, anche se non aveva il rating perfettamente in linea con gli standard decisi dai signori di Basilea. Quando salta questa rete di rapporti di fiducia, che è la forza delle nostre piccole imprese, il disorientamento è inevitabile.
Un altro problema è quello dell’individualismo: la perdita dei rapporti che hanno tenuto in piedi queste piccole imprese lascia gli imprenditori in un mare magnum di solitudine. Poiché stiamo predisponendo un centro d’ascolto in Veneto – per avviare un’esperienza come quella che, a Bologna, Sergio Dalla Val sta compiendo con Confartigianato in questa direzione ormai da più di un anno –, abbiamo condotto un’indagine sui cinquanta casi di suicidio di imprenditori che conoscevamo bene. Dall’identikit emerso è risultato che si tratta di persone fra i 40 e i 70 anni, con una precedente storia di successo. Sono imprenditori che, anche con pochi dipendenti, hanno svolto la loro attività in maniera onorevole e soddisfacente, con una rapida ascesa incominciata nel periodo del boom economico e con scarsa scolarizzazione, che si ritrovano oggi con un notevole calo di lavoro e crediti inesigibili. Chi apre un’azienda e dopo tre mesi sottrae i contributi ai dipendenti aprendone un’altra non avrà questi problemi e andrà avanti con questo metodo. Ma l’imprenditore che ha un senso dell’onore e della responsabilità, che deve pagare prima di tutto i propri dipendenti e fornitori, che hanno una famiglia come la sua, non ce la fa. C’è poi il confronto con i genitori fondatori, che evidenzia ancora di più il disagio per l’incapacità di affrontare le difficoltà di un’azienda costruita in anni di grandi sacrifici. Ma il fattore comune che lega questi elementi è la solitudine.
Che fare? In primo luogo, occorre costituire una rete silenziosa sul territorio, con più esperti, meno talk show e titoloni e più sobrietà nell'affrontare questi temi. Questo in parte sta già accadendo: un esempio è quanto è successo nei giorni scorsi a Venezia dove associazioni, sindacati e perfino il Prefetto, che rappresenta lo Stato, hanno formato un tavolo con la Guardia di finanza, diverse banche ed Equitalia, ponendo per la prima volta il concetto che la prima casa non possa essere pignorabile, anche perché ridurrebbe le prerogative per l’accesso al credito. È un primo segnale che indica quanto sia importante non favorire questo disagio. In secondo luogo, occorre cambiare le politiche industriali del paese perché, se proseguiamo in questo modo, falliremo nei gangli più profondi e importanti della nostra storia e della nostra economia. È ormai evidente che si sta sgretolando il tessuto connettivo del paese, che è costituito dalla piccola e media impresa, a cui è legato il destino delle famiglie. Io non credo che, in ambito politico, ci sia la percezione della gravità della situazione, ma penso anche che ci sia la volontà di difendere certi principi.
Infine, dobbiamo considerare i giovani che fanno guardare con speranza al futuro. Ci sono casi emblematici che ci raccontano un paese diverso, che ce la può fare. Come quello di un ragazzo di trent’anni che, dopo aver vissuto in un magazzino di tre metri per due a San Francisco, ha elaborato alcuni programmi di geolocalizzazione che consentono di visualizzare la posizione degli amici nell’istante in cui li si cerca. Questo giovane ha venduto a Facebook la sua invenzione per 29 milioni di dollari e ha appena ventinove anni. In Puglia, un altro giovane della stessa età ha fondato Groupon, un sito di vendite a basso prezzo che in un anno ha assunto 450 dipendenti. Poi c’è il caso di Jobrapido, un motore di ricerca per trovare lavoro, inventato da un giovane italiano, che è stato venduto a trenta milioni di sterline a un network inglese. Tutto questo ci fa sperare, perché la piccola impresa si sta trasformando e questi giovani stanno indicando strade nuove a cui guardare.
***L'articolo di Gianni De Checchi è tratto dal dibattito Il disagio e la salute, intorno al libro di Sergio Dalla Val In direzione della cifra. La scienza della parola, l’impresa, la clinica (Spirali), (Ateneo Veneto, Venezia, 11 aprile 2013).