LA CURA DELLA CITTÀ E LA SOVRANITÀ DEI CITTADINI
Il significante cura, a partire dal positivismo, era stato attribuito in modo pressoché esclusivo al campo medico e alle prerogative di chi ne praticava la professione. Chi curava non poteva essere che medico. Freud, tra i primi, mise in discussione questa esclusività, prospettando una cura che poteva essere condotta da non appartenenti a tale categoria professionale e arrivando a scrivere un libro, Il problema dell’analisi condotta da non medici. Ma è stato con autori che si sono affermati negli ultimi cinquant’anni, come Foucault, Ivan Illich, per molti aspetti Thomas Szasz, e altri ancora, che, pur attraverso ricerche sviluppatesi a partire da ambiti molto differenti, è stato dato ampio rilievo all’arbitrarietà con cui la corporazione medica si era arrogata l’esclusività della gestione di tale pratica. Eppure, nello stesso periodo, in occidente, questa stessa corporazione ha aggiunto prerogative, arrivando ad attribuirsi, anche in termini di legge, com’è accaduto ultimamente, la gestione esclusiva di qualsiasi altra pratica di cura sorta anche nelle parti più lontane geograficamente, o remote cronologicamente, apparse nel pianeta. Quest’azione di costante appropriazione e di attribuzione autoreferenziale, quasi di brand, del significante cura, ha portato all’apparente paradosso che l’opinione comune, così come alcuni settori intellettuali, pur avvertendo l’insostenibilità dell’espandersi di quest’azione, l’hanno trasferita e diffusa in moltissimi altri campi, mantenendo tuttavia i capisaldi giustificativi fissati dalla prassi medica, il più importante dei quali è che la cura deve essere rivolta a un corpo malato. Per cui oggi architetti e ingegneri si dicono propensi a occuparsi della cura delle città, botanici e altri esperti del settore degli ambienti cosiddetti naturali, storici dell’arte ed esperti di beni culturali della cura di opere d’arte e di altri beni culturali e artistici, consulenti di vario tipo di imprese considerate come malate, ma con un atteggiamento e un approccio che sono fondamentalmente quelli della prassi medica. Aspettare che l’oggetto di cura si ammali, dia segni visibili e vistosi di cedimento o di degrado, per intervenire, e su interventi basati su tale logica fondare qualunque programmazione, anche quando la si ammanti di prevenzione. Interventi che riportano, per lo più, alla formazione di una coppia terapeutica, che riproduce l’antica coppia maestro-allievo, in cui l’esperto del settore, qualunque esso sia, diviene terapeuta, nella cura dell’organismo-settore malato. Questo ha risvolti spesso poco interessanti per il cittadino, il quale viene sempre più spesso escluso da processi decisionali e da procedure nelle quali viene ritenuto sempre meno competente, sia per la loro complessità sia per la posizione di paziente non informato esattamente come avviene, di solito, nella cura della sua salute. La messa in rete di cavi e fibre ottiche da parte dei vari gestori delle telecomunicazioni, ottenuta attraverso ripetute aperture delle superfici stradali della maggior parte delle città del pianeta, che in futuro verrà ricordata, forse, come una delle opere più grandiose della storia degli umani, è passata senza alcuna presentazione, alcuna informazione, soprattutto senza alcun dibattito, semmai con alcuni consensi ottenuti per mezzo di mobilitazioni emotive mediatiche, ottenute con le stesse tecniche con cui vengono mobilitati cittadini su temi civili o intorno alla difesa da eventi morbosi di cui non vengono ben chiariti né i termini né gli effettivi contorni. Tutto questo senza nulla togliere all’importanza e alla portata planetaria e civile delle telecomunicazioni, di cui, tuttavia, nonostante le ripetute campagne promozionali, siamo ancora una minoranza ad avvalerci.
C’è tuttavia una nozione, che per lunghi anni, soprattutto in democrazia, abbiamo dato piuttosto affrettatamente per definitivamente acquisita, ed è quella di sovranità. Che, nelle costituzioni democratiche, per decenni anche in quelle delle democrazie socialiste, stia scritto che la sovranità appartiene al popolo, ci ha fatto forse sentire al sicuro su tale conquista, che abbiamo ritenuto di avere strappato definitivamente ai sovrani laici, religiosi o cesaropapisti. Sui pericoli, proprio nei riguardi della sovranità, delle democrazie formali sono intervenuti nei secoli precedenti filosofi, d’interesse anche sociologico, forse affrettatamente bollati come reazionari. Fra tutti Donoso Cortez, dalla Spagna, ma anche De Maistre, e ancora precedentemente Hobbes. È indubbio come il dibattitto sul concetto di sovranità e sulle sue applicazioni nell’attuale sia andato sicuramente scemando in occidente. Uno degli ultimi ad occuparsene fu Carl Schmitt, nella Germania weimariana, partendo da posizioni cattoliche che cercavano di abbracciare anche quelle protestanti sull’argomento. Fu un’ultima grande lezione, data tra l’altro dal paese che, proprio dall’incertezza sulla sovranità sua nel contesto internazionale e dei singoli cittadini nell’ambito di una democrazia affrettatamente costituita, forse più degli altri soffrì di questa incertezza, aprendo le strade a un’esperienza terribile, come d’altronde avvenne in altri paesi dell’est e dell’ovest dell’Europa, Italia compresa, nel secolo trascorso. Schmitt, pur se frainteso da chi l’andava togliendo ad altri, cercò di definire alcuni contenuti fondanti il concetto di sovranità in una democrazia moderna, tra cui doveva comunque esserci la sovranità sul territorio. Senza di questa, lasciando campo aperto a lavori e trasformazioni fatti per decisioni di pochi, o di uno solo, senza alcuna resistenza, senza intervento del nome per i cittadini, qualunque democrazia, anche formalmente costituita, apre la via a interventi dispotici, che potranno rimanere circoscritti o formalizzarsi, com’è sempre accaduto, in nome di un funzionalismo autoritario. Sovranità che non può prescindere dalla libertà di spostamento, che da anni sta subendo una costante, progressiva limitazione – a fronte, paradossalmente, di facilitazioni a viaggi in terre lontane –, per una regolamentazione sempre più ristretta degli accessi cittadini e per l’introduzione di una legislazione sanzionatoria sempre più gravante. Guardando film di decenni trascorsi, a partire da quelli di Chaplin a quelli italiani del dopoguerra, e gli stessi documentari di quel periodo, ci accorgiamo di come le persone si spostassero con ben altra leggerezza, pur in contesti economici di infinitamente maggiore povertà, e avessero una libertà, oggi ormai sconosciuta, di appoggio e di riposo. Oggi, pur in presenza di interventi mirati, come mai prima, per facilitare situazioni di handicap specifico, la situazione è diventata difficilissima per tutte le situazioni di handicap diffuso, come per molti anziani, per la velocità del traffico, per la sempre più frequente asportazione di panchine e di altri punti di appoggio e di servizi igienici pubblici, per motivi addotti di ordine pubblico e d’igiene, per la protezione meccanica o sanzionatoria della maggior parte dei punti di appoggio pubblici e privati. La sovranità sul territorio, per molti anziani, dopo avere visto progressivamente scemare quella familiare, va del tutto scomparendo, aprendo la via, tranne i casi di rilievo intellettuale o economico, all’istituzionalizzazione sempre più probabile in residenze “assistite” e in luoghi definiti “protetti”, dove l’assenza di sovranità su tutto è assoluta. E per molti giovani non va meglio, nell’alternativa tra la strada e la comunità.
Una politica di cura della città che parta dalle istanze di categorie di cittadini soggetti, eredità della democrazia ateniese, e dalle esigenze di alcuni di questi in quanto tali, porta a conculcare la sovranità di altri. Questa contraddizione è esplosa drammaticamente con il sorgere del lavoro organizzato. Tuttora le scelte politiche di cura della città sono condizionate dal prevalere delle istanze dei cittadini lavoratori, con la loro variante di cittadini studenti, o di quelle dei cittadini imprenditori, con le loro varianti di cittadini commercianti, cittadini consulenti, cittadini professionisti, secondo l’alternarsi degli schieramenti politici al governo della città. Pur in presenza dell’avanzare progressivo di settori marginali o marginalizzati, tra i quali immigrati e profughi, che, alle istanze di ciascun cittadino aggiungono quelle, peculiari, di chi proviene da terre e tradizioni di nomadismo, in cui il concetto di sovranità sul territorio è ben più sentito, la città di ciascuno, non soggetto, è ben lungi dall’essere anche solamente preconizzata. Forse lo stesso mito di Atlantide, non a caso evocato da Platone nel cuore del dibattito sulla politica in occidente, anche attraverso immagini di città “per tutti”, come in effetti avveniva maggiormente nelle grandi città mediorientali, ad opera di despoti, che in quelle occidentali prima di Roma, e riproposto, non a caso, nei periodi di crisi metropolitane, è opportuno, se non diviene utopia, a ricordarci tale istanza.
Il senso e la pratica della sovranità sul territorio sono sempre stati un fattore di salute. Le popolazioni nomadi, che pure soffrono gl’insulti climatici e ambientali al punto da dovere, sovente, o trasformarsi o scomparire, nelle congiunture favorevoli hanno da sempre goduto di salute superiore a quella degli stanziali, facendo minore ricorso a dispositivi farmacologici, o rinunciando a essi, anche nei tempi più antichi. Il concetto di cura del corpo era dunque differente, non settorializzabile e non localizzabile, più vicino alla nozione di corpo “in gloria”, anche se inteso naturalisticamente, che a quello di corpo da curare in quanto malato. I Romani furono maestri in questo, abbinando le qualità di cittadini stanziali a quelle di cittadini in spostamento, inteso come possibilità di dislocazione costante più che di nomadismo, sul territorio, conservando qualità e prerogative di civis. Fu creato un istituto molto importante, già nei tempi più antichi della civiltà romana, che era quello della curia, che doveva avere cura delle cose sacre, ma anche, come c’illustra Varrone, dei cittadini e degli elementi ambientali in cui questi vivevano, istituto trasposto poi nella tradizione cattolica. È comunque impossibile, dato il combinarsi complesso di elementi differenti, politici, sociali, ideologici, filosofici, giuridici, religiosi, com’è avvenuto in occidente, affrontare qualunque dibattito sul governo della città e sulla sua cura, e sulla sovranità dei cittadini, con semplici trasposizioni storiche di carattere imitativo. Occorre ritrovare elementi culturali fondanti e precisi. A partire, sicuramente, dal messaggio di Cristo, che è stato un messaggio in direzione dell’affermazione costante della sovranità, non della padronanza, dell’uomo sulla terra. Nozione oggi considerata, soprattutto in letture di ambiente ebraico, anche come una risposta all’ellenizzazione politica e culturale del Medio Oriente. Tale messaggio è stato portato avanti, fino ai giorni nostri, da quasi tutte le confessioni cristiane, in particolare da quella cattolica, che ha posto l’integrazione fra elementi differenti, compresa la complexio oppositorum, e non la settorializzazione, alla base di qualunque costituzione civile e religiosa. Ma anche la grande lezione del Rinascimento, che con Machiavelli, ben prima di Montesquieu, si è occupato in modo specifico della questione della sovranità, affermando tra l’altro, come ci ricorda Armando Verdiglione in un mirabile libro sull’autore, come sovrano sia lo stato, ma pure la giustizia, e pure il diritto dell’Altro. E, più in generale, come i dispositivi dell’arte, dell’invenzione, della scrittura, dell’artificio siano, come ben c’illustra l’altro Grande, Leonardo, altrettante affermazioni di sovranità, non sull’Altro, non sull’altro soggetto o l’altro diverso, ma nei termini dell’assoluto.
Riguardo al significante cura, l’elaborazione della cifrematica, la scienza della parola, in questi anni ne ha introdotto un’altra accezione, assolutamente non assimilabile a quella sanitaria e nemmeno a quella invalsa ultimamente in campo civile, prospettando per essa uno statuto differente, che privilegia aspetti culturali e intellettuali ed elementi di dibattito e di discussione che non possono prescindere dalla parola. Accezione di cura che combina formazione e terapia, che non può delegare, o arrogare, tutta la responsabilità di essa a un cosiddetto esperto, togliendola a chi ne è creduto oggetto, ma la responsabilità è intoglibile per entrambi. Non all’esperto spetta l’esclusività della manovra di cura nei suoi vari aspetti, pragmatici e procedurali, ma a ciascuno coinvolto, tenendo conto di elementi quali il tempo e la struttura dell’Altro. Forse questo è un preambolo ineludibile anche per l’instaurarsi di una nuova accezione di sovranità, fondata sulla responsabilità e sul diritto, inteso sempre come diritto dell’Altro.