L’INDUSTRIA È LA BASE DELLA CIVILTÀ

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presidente di Sefa Holding Group S.p.A., Bologna

L’acciaio italiano è tra i migliori d’Europa (come si può leggere nelle sue interviste pubblicate sui numeri precedenti del giornale e sul sito www.lacittaonline.com), ma attualmente il nostro paese non sembra valorizzare il settore siderurgico. In che termini oggi si può sviluppare una cultura dell’acciaio?

Innanzitutto evitando la chiusura delle industrie che ancora producono acciaio, che significherebbe perdere la storia e la cultura di un paese, e migliorando gli impianti esistenti per ridurre l’inquinamento e l’impatto ambientale. Il paese deve innovarsi senza dimenticare che l’acciaio ha contribuito alla sua crescita, facendolo diventare la settima potenza economica del mondo. È uno sviluppo culturale che non può essere rimandato, soprattutto se pensiamo che l’Italia ha l’80 per cento dei beni culturali del mondo, che possono essere consegnati alle generazioni future restaurati e ristrutturati anche con l’utilizzo dell’acciaio. Anche le scuole e le case che non sono a norma o che la qualità della vita esige più efficienti devono essere ristrutturate. Ma occorre usare gli strumenti e le tecnologie a nostra disposizione, anziché combatterle inneggiando al ritorno alla terra, in modo che ognuno possa produrre autonomamente i beni primari. Se non c’è un reddito dal sistema paese su cui lo stato può contare e poi da ridistribuire, non c’è futuro. Occorre produrre nell’ambito di un sistema sociale, di un sistema paese. I talenti che ciascuno ha non può tenerli per sé, ma occorre che li metta a disposizione della società. L’economia del “piccolo è bello” non funziona, potrà forse funzionare nel dilettantismo, ma non regge certo le sorti di un paese.

La politica del singolo che pensa al proprio orticello non funziona, anche perché non contribuisce al mantenimento del sistema sanitario, scolastico e delle infrastrutture, come invece chiede un paese moderno. Chi fa la scelta di ritirarsi in mezzo alla natura perché può contare su un reddito fisso o una piccola pensione pensa solo a sé e al proprio benessere e, magari dopo avere abitato per sessantacinque anni nel centro di Milano, godendo dei benefici che la società ha offerto, evita di confrontasi con figli e nipoti in modo che anche loro abbiamo un futuro.

Un paese non può prosperare se sconfessa la propria storia. Se le imprese chiudono, finisce anche la possibilità di ottenere miglioramenti culturali e sociali. Chi viene dall’estero a fare shopping delle nostre aziende non ha alcun interesse a proporre un diverso stato di vita sociale, che ciascun paese deve invece guadagnarsi.

La logica del mors tua vita mea porta a una nuova forma di guerra mondiale. Una guerra economica che si combatte nella credenza che, se chiude una fabbrica, il concorrente ci guadagna. Questa guerra incomincia già quando, per esempio, si emanano leggi secondo cui è più conveniente non produrre, confrontando costi e benefici. Non è così che si favorisce la produzione. Questa politica è stata praticata molto spesso nel settore dell’agricoltura, con incentivi di ogni genere da parte dell’UE, perché c’è una forte conflittualità fra stati e imprese della comunità.

Anche la classe imprenditoriale ha le sue responsabilità, quando ha scelto di fare affari con chi contava politicamente. Mi riferisco ad alcune industrie italiane e multinazionali che investono in Italia con la stessa velocità con cui lasciano il paese e che hanno pensato al loro interesse personale e non a quello della società, trasferendosi altrove appena hanno trovato occasioni migliori.

Questo è un paese che non ha ancora capito quali sono le sue risorse. L’aeronautica, per esempio, è un settore che avrebbe potuto sostituirne altri che non tenevano più, ma si è lasciato tutto all’iniziativa privata senza una direzione globale. Manca la strategia per il rinascimento di questo paese, che non si fa in pochi mesi ma richiede un lungo processo culturale, economico e politico. Quando viene penalizzato un Istituto Tecnico Industriale come Aldini Valeriani – la scuola bolognese che oggi viene ricordata come emblema di eccellenza nella formazione tecnica e imprenditoriale del nostro territorio – creando nuove attività culturali fine a se stesse, che non fanno sviluppo per il paese, è un indice che qualcosa non funziona. I nostri giovani sono bravi, ma li abbiamo resi disabili in senso culturale, in un paese che disdegnano, perché non dà loro lavoro e speranza. Oggi, non ci sono le condizioni per costituire un altro Aldini, nato nella cultura degli anni settanta, in cui c’era l’industria, la voglia di mettersi in gioco, per cui chi aveva un’idea aveva anche l’entusiasmo di farla divenire operativa. È stata stroncata persino l’ambizione di avere una casa di proprietà, con tasse sempre più esose, e così è avvenuto per le iniziative imprenditoriali. Assistiamo invece all’apertura di decine di piccole attività, preferibilmente stagionali, che sono fine a se stesse. È un’attività, ad esempio, vendere film o cover del cellulare. Queste attività rendono al paese? C’è poi la moda delle pizzerie, delle gelaterie e dei kebab. Con queste attività, se va bene, vive la famiglia che ci lavora, ma difficilmente potranno contribuire allo sviluppo delle infrastrutture del paese. Occorre la cultura, l’arte del fare e del costruire. Basterebbe salvare quello che i nostri padri ci hanno trasmesso con le industrie nate negli anni settanta. Però, occorre anche fare in modo che i giovani capiscano le ricchezze che abbiamo ereditato. Se continuiamo a ripetere che l’industria inquina ed è stressante, non c’è futuro né per noi né per loro. Il rapporto cultura e industria è la base dello sviluppo di una civiltà, non solo di un paese, ma addirittura di un’intera civiltà.

Anche per questo avete allo studio un progetto per lo sviluppo dell’acciaio in Italia?

È un progetto di rete d’impresa volto alla valorizzazione delle risorse imprenditoriali che ancora operano nel nostro territorio, le imprese piccole e medie del settore meccanico, che riconoscono nella materia prima il loro bene principale. Noi siamo un paese trasformatore e quindi è essenziale dotarci della materia prima. Questo progetto nasce per avviare un dispositivo di sviluppo del settore manifatturiero della meccanica nel territorio e per offrire un punto di riferimento a chi vuole trovare in tempi brevi quello che il mercato chiede, dall’acciaio all’alluminio, all’ottone, ai tubi, e così via.

Quando nel 2000 costituimmo la TIG-Titanium International Group Srl, nella nostra ricca e opulenta Emilia c’erano cinque o sei clienti che adoperavano regolarmente titanio. Oggi, abbiamo quasi duecento clienti solo in Emilia Romagna, perché trovano la materia prima in loco, a km 0, e comprano subito quello che serve loro. L’esperienza dell’uomo matura quando vive a contatto con la materia prima, che stimola a inventare nuove lavorazioni e a essere modellata secondo nuove esigenze. Si avvia così un processo di formazione e d’invenzione di strumenti che costituisce un incentivo a migliorarsi sempre più. È come lavorare in una grande bottega artigianale, in cui si fa innovazione. È la manualità artigianale della tradizione manifatturiera che ha fatto la storia dell’Italia.

Chi dovrebbe intervenire per favorire questa cultura?

Soprattutto le imprese. Nel nostro caso specifico, per esempio, abbiamo interesse a far vivere questo settore perché non muoia la cultura del manifatturiero e dell’acciaio in particolare. Capita spesso che incontri miei ex venditori che ancora operano nel settore. Questo dimostra che l’impresa crea una cultura che prosegue anche oltre i suoi confini. È importante che le imprese capiscano che occorre fare questa alleanza, nella prospettiva di una sana e competitiva concorrenza che favorisca la produzione di beni e servizi di qualità. Occorre che gli imprenditori siano più aperti alla collaborazione e non guardino solo al proprio tornaconto. Se non si è disposti a scambiare con gli altri i propri talenti e le acquisizioni della propria ricerca, non c’è futuro.

Il compito di uno stato è quello di promuovere questo spirito, anziché farlo morire. Se accetta che sia annientata la capacità di fare, di crescere e di migliorarsi, se continua a tassare questa sana ambizione, consegna il paese alla miseria. È uno stato ideologico, che non è mai entrato in una fabbrica e che per primo non rispetta i patti con i cittadini, quando lascia che ci siano imprenditori che stanno costruendo da sé il capannone, senza gli aiuti promessi in seguito al terremoto oppure non si attiene ai suoi doveri rispetto ai contratti stipulati in diversi settori del paese, come sanità e infrastrutture. È uno stato che poi arriva anche a schernire l’imprenditore che lavora in Italia, facendo confronti con quelli cinesi o inglesi, che sono ampiamente sostenuti e incentivati dai rispettivi governi. L’imprenditore italiano dimostra quanto ha da insegnare, investendo e inventando in condizioni sfavorevoli. Non dobbiamo imparare niente da nessuno e molti imprenditori italiani hanno dato prova più volte che mettendosi in gioco, lavorando nelle condizioni peggiori, riuscivano a produrre qualità ed eccellenza. Però devono avere un incentivo per continuare a fare, o almeno devono sapere che il loro stato non li osteggia.

 L’ideologia blocca le aziende, impedisce persino l’uso materiale delle proprie capacità lavorative, vessandole pesantemente su quello che producono. Nel frattempo, subiamo il ricattato delle multinazionali, perché sono fonti di movimentazione e liquidità. Serve la cultura del lavoro e della produzione, dove il lavoro è l’espressione della capacità del singolo di mettersi in gioco, come accadeva negli anni settanta. Sembrava più facile allora, ma oggi possiamo fare altre cose, per esempio nei settori delle energie, dei beni culturali, della medicina, della ricerca e delle infrastrutture. Occorre favorire il mantenimento e la crescita dei talenti che abbiamo nel territorio e che sono l’eredità culturale che ci hanno lasciato i nostri padri, lavorando sodo per la propria famiglia, per la propria città e per il proprio paese.