LA MACCHINA E LA CRISI

Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione culturale “La dissidenza della parola”

 

Rimettere in moto l’economia, far ripartire il paese: sullo sfondo della crisi si profila la metafora della macchina. Metafora interessante, se si chiariscono, però, alcuni aspetti essenziali, se l’idea non è quella, come sembra, di un funzionamento inceppato o addirittura a rischio di blocco, da cui prendono forma scenari di catastrofe e di rovina. Non ci sono ammortizzatori, sociali e non, idonei a parare il colpo di una simile visione; e chi, attraverso i media, si limita a buttare legna sul fuoco, alimentando il terrore e il panico, compie un’operazione inintellettuale.

Macchina indica funzionamento, lavoro, capacità. La definizione corrente ne fa un “complesso di più elementi costituenti un tutto unico sapientemente organizzato e regolato”, dove “complesso” scivola facilmente nell’impropria equivalenza con “sistema”, quel “tutto unico” le cui singole parti tendono al medesimo fine (alla stregua dell’organismo nel celebre apologo di Menenio Agrippa).

Si tratterebbe, quindi, di un funzionamento finalizzato alla salvaguardia dell’insieme.

Definire la crisi in atto come crisi di sistema è un abbaglio che merita attenzione. Nel corso degli ultimi anni, la crisi avrebbe travolto, a vario titolo, il sistema finanziario, il sistema bancario e il sistema immobiliare, poi il sistema economico e, lust but not least, il sistema della politica. Sono semplicemente saltate le regole, come si dice fin dall’inizio della crisi, o a mostrare la corda è proprio il concetto di sistema?

Per definizione il sistema è un insieme chiuso e autoreferenziale, con propri codici e canoni. Questo comporta che qualsiasi settore di attività si conformi in questo modo pratica la tutela per sé e la prudenza contro l’Altro, anziché come virtù dell’Altro.

A supportare l’autoreferenzialità interviene poi il garantismo con cui l’antica idea di corporazione si tramuta in quella odierna di casta (come dire: di bene in meglio!).

Il risultato è la deresponsabilizzazione, la risposta negata o assurda (in particolare, da parte di istituzioni o banche). È assurdo, ad esempio, che, a fronte della richiesta di credito, la risposta sia “come stai?” piuttosto che “da dove vieni e dove vai?”: la prima impone la visione del pregresso e dello statu quo, quindi, la visione del problema con la messa in conto del pericolo di morte; la seconda instaura l’interlocuzione riguardo al progetto e al programma in atto, quindi, l’interlocuzione come dispositivo di forza, di rigore, di provocazione, di capacità e di comunicazione in direzione della riuscita pragmatica.

Non è questione di fine intellettualismo o di sofismi linguistici, è questione di vita. Differentemente, i migliori o i peggiori pregiudizi hanno presa e peso, lasciando dietro di sé suicidi, fallimenti, terrore e panico.

Nel sistema come insieme chiuso e autoreferenziale non c’è ascolto: prevale la visione del problema e non la considerazione del programma in atto. A frenare, a deresponsabilizzare non è il presunto degrado o corruzione della macchina, per rimanere nella metafora, ma è il realismo del visionario, che, troppo intento a tutelare il proprio orto, non ode né ascolta, quindi, non capisce né intende nulla. Nell’autoreferenzialità il dialogo mostra la sua funzionalità al monologo.

Se, secondo il suo etimo, la crisi è giudizio, giudizio del tempo il cui intervento non lascia nulla uguale a prima, allora, la crisi indica che non c’è bisogno di nuovi sistemi, bensì di un altro funzionamento o, più semplicemente, del funzionamento esente dall’idea di sistema: questa è l’istanza originaria inscritta nel termine “macchina”, il cui etimo include significanti essenziali come “forza”, “sforzo”, “crescita” e “aumento”.

La macchina esige la forza assoluta e costante, quella che Freud chiama pulsione, non il suo rapporto con l’opposto, la debolezza, quindi, non la sua duplicazione in pressione e depressione, o in oppressione e compressione, come sta avvenendo nel sud dell’Europa.

Ancora, la macchina indica il lavoro da cui procede la crescita assoluta, senza alternativa nella decrescita. Quello che viene indicato come decrescita è il segnale dell’esigenza d’invenzione e d’innovazione: appunto, un altro funzionamento, un’altra operatività, un altro modo di procedere in direzione della riuscita.

La stasi non appartiene alla macchina. Senza riferimento al sistema, la macchina indica il funzionamento che sfocia nell’invenzione. Con il concetto di sistema ciascuna cosa è localizzata, fissata e finalizzata alla conferma e alla salvaguardia dell’insieme, perdendo lungo la via il globale dell’esperienza. Questo è semmai il macchinismo, nemico acerrimo dell’invenzione, di cui la burocrazia offre un esempio insuperabile.

Globale non è sinonimo di totalità. Certamente, c’è connessione tra settori e tra aree del pianeta, ma non si tratta d’interdipendenza da ricondurre all’unità, magari azzerando il vecchio sistema per il nuovo.

Pensare di ripartire da zero equivale a cancellare la memoria e a inseguire una rinascita del tutto ideale, nel suo inevitabile delinearsi entro i confini dell’immaginabile. La crisi esige lucidità, non visioni di palingenesi.

La metafora della macchina rileva come l’invenzione non spazza via la memoria ma ne esalta la cultura; mantiene la tradizione, non il tradizionalismo. La metafora della tecnica rileva la variazione rispetto alla tradizione. La struttura delle cose comporta sia la macchina sia la tecnica in queste accezioni.

Conta, allora, chiarire che la crisi è una proprietà del tempo, non comporta il tempo del punto zero o del punto morto da cui ripartire, ma il tempo della trasformazione che s’instaura in virtù della struttura delle cose nel loro rivolgersi alla qualità.