IL RISCHIO D’IMPRESA DISSIPA LA PAURA
Ho letto con estremo interesse e allo stesso tempo con difficoltà il libro di Sergio Dalla Val In direzione della cifra. La scienza della parola, l’impresa, la clinica (Spirali). Apparentemente è una difficoltà di comprensione dei termini, ma in realtà la lettura di questo testo richiede lo sforzo di uscire dagli schemi strutturati a cui siamo abituati, per poter cogliere la sua proposta e il suo contenuto innovativo. Aggiungo che si è trattato di divenire dispositivo di ricezione, non nel senso di dover assorbire una rete di relazioni, che è statica, ma di accogliere un divenire, un dispositivo da cui è imprescindibile il tempo.
È particolarmente interessante il capitolo Machiavelli, questo brainworker, dove emerge una considerazione dell’impresa come viaggio, quindi come istanza del tempo, che contrasta con le visioni tradizionali dell’impresa, come luogo in cui entrano materie prime ed escono elaborati, ma anche come struttura di tipo gerarchico e rete di relazioni che rimane una visione ontologica. A queste visioni statiche il libro sostituisce un’idea dinamica dell’impresa, intesa come percorso e itinerario. Incredibile la modernità dei brani di Machiavelli citati nel libro, per esempio a proposito del rischio d’impresa: “Sempre quelle imprese che con pericolo si cominciono si finiscono con premio, e di uno pericolo mai si uscì sanza pericolo”. Come dire che il concetto stesso d’impresa è connaturato al rischio, che deve essere affrontato senza paura. E quando invece la paura coglie l’imprenditore – paura della crisi, della difficoltà finanziaria o della concorrenza –, tale paura è già la morte per l’impresa, è una paura della morte che si frappone alla riuscita già in partenza.
L’idea dell’impresa come avventura e come viaggio interviene frequentemente anche nella letteratura. Non a caso, in un brano successivo del libro leggiamo una frase dell’Ariosto: “Va il cavallier per quella selva immensa/facendo or una, e or un’altra via/dove più aver strane avventure pensa”. Questo cavaliere va a cercare l’avventura laddove è più strana, non ha paura del rischio, non ha paura della contingenza negativa, anzi va a cercare il rischio perché è la vita e il significato stesso dell’impresa: l’impresa come atto dinamico, il cui valore non sta nei beni immobili e negli investimenti iniziali, ma è il valore dell’itinerario e della direzione. Ecco perché il bilancio andrebbe redatto rispetto all’avvenire e non al passato.
A questo proposito, l’elemento più importante è il cervello dell’impresa, ovvero il modo di porsi dell’imprenditore nei confronti delle persone che lavorano e collaborano all’interno dell’impresa. Alla figura dell’imprenditore che ha una responsabilità totale e da cui deriva l’input ai collaboratori dell’impresa Dalla Val sostituisce la proposta di un’impresa come cervello collettivo, che inventa l’impresa giorno per giorno: ciascuno partecipa attivamente al viaggio dell’impresa dando un apporto al suo valore aggiunto. Un cervello che lavora in maniera composita come dispositivo d’impresa per la valorizzazione del contributo di ciascuno.
A pag. 258, leggiamo una frase estremamente interessante di Machiavelli, che anticipa questa visione: “La prima coniettura che si fa del cervello di uno signore, è vedere gli uomini che lui ha d’intorno; e quando e’ sono sufficienti e fideli, si può sempre reputarlo savio, perché ha saputo conoscerli sufficienti e mantenerli fedeli”. È importante capire che qui"fedeli” è attribuito a coloro che sono coinvolti e fanno parte della battaglia costante dell’impresa e non possono abbandonarla, dal momento che ne sono protagonisti. Non sono mercenari prezzolati in attesa di istruzioni, ma componenti essi stessi dell’impresa. E qui è interessante anche il concetto di battaglia costante, che non si può perdere, nonostante siamo abituati a pensare alle imprese che chiudono, falliscono o abbandonano il campo. A questo proposito Machiavelli ricorda che i soldati veneziani sono imbattibili sulle navi, mentre vengono sconfitti sulla terraferma: questo perché nella battaglia di terra, anche se sconfitti, ci si salva, mentre se i nemici affondano la nave è morte certa. Scrive: “Le necessitadi possono essere molte. Ma quella è più forte che costringe o vincere o perdere”. L’impresa come viaggio è anche questo, l’impresa come cervello collettivo che non dipende semplicemente dalla volontà dell’imprenditore, ma deriva dalla “sufficienza” e dalla “fedeltà” dei collaboratori. Sufficienza che non è, come si legge nel testo, il rasoio di Occam per tagliare i rami secchi, coloro che non sono sufficienti. Sufficienza vuol dire autodeterminazione, capacità di fare parte dell’impresa come cervello, come dispositivo di direzione. Proprio questo dispositivo diventa la forza che permette di superare qualsiasi ostacolo e che consente non tanto di sconfiggere l’avversario – non c’è un avversario da sconfiggere –, ma la paura, la paura della sconfitta.
In definitiva, che cosa emerge da queste considerazioni? Emerge un’impresa che passa da una visione statica, ontologica, a una visione dinamica, in cui l’impresa è intesa come viaggio. Se è vero che la fisica serve soprattutto a fornire metafore al pensiero, mi sembra d’intravedere qui il principio d’indeterminazione di Heisenberg: quell’elettrone di cui, se ne osserviamo la massa, ne perdiamo completamente l’aspetto ondulatorio o viceversa. Credo che sia proprio questo il punto: nel momento in cui fissiamo l’impresa in una struttura ontologica, ne perdiamo il movimento, perdiamo il senso del suo itinerario e del suo viaggio e quindi il suo vero valore. Forse è proprio su questo punto che possiamo riscontrare la chiusura da parte delle imprese di fronte a situazioni contingenti negative.
**L'articolo di Marco Pedroni è tratto dal dibattito La scienza della vita, che si è tenuto a Ferrara il 5 marzo 2013, intorno al libro di Sergio Dalla Val, In direzione della cifra. La scienza della parola, l’impresa, la clinica (Spirali).