LA PIETAS DI KRYM
Sono felice di avere incontrato uno scrittore come Anatolij Krym, una persona estremamente gradevole, di grande spessore e ricchezza interiori e di straordinaria correttezza, nonché conversatore amabile e spiritoso, capace di argute battute fulminee.
Ha un fisico mingherlino e due begli occhi celesti, chiari, perspicaci e indagatori, se pure molto benevoli, e questa sua benevolenza nei confronti dell’uomo e del mondo traspare in ogni sua pagina.
Quando abbiamo deciso di tradurre il libro Racconti intorno alla felicità ebraica (Spirali), Krym mi ha inviato qualche pagina del primo racconto, Berl, Berta e altri. Mi hanno divertita e intenerita quelle pagine battute a macchina fitte fitte, proprio come facevano, e tuttora fanno, i russi per risparmiare carta: 70 righe per pagina, con i margini ridottissimi.
È stato amore a prima vista, un vero piacere scoprirlo e leggerlo, apprezzare all’infinito la sua lingua, molto fluida e classica, un russo bellissimo, ricco e scevro da ogni sperimentalismo, superflue espressioni gergali o neologismi fuori luogo, per una lettura straordinariamente piacevole.
Ovviamente, per chi deve tradurlo non mancano i problemi, ma sono i soliti problemi: riuscire a rendere i giochi di parole, oppure trovare un equivalente per quello che, purtroppo, anche in questo caso rimane intraducibile, come, per esempio, la pronuncia tipica di un ebreo russo, impossibile da rendere in italiano. Ho finito per ricorrere a una forma riduttiva e accennare a generici difetti di pronuncia, dopo aver consultato tutti i miei amici ebrei, da Milano alla Sicilia, senza tuttavia trovare nella nostra lingua un modo per caratterizzare la parlata tipica di un ebreo italiano. Ho anche riletto Primo Levi, che ha scritto racconti esilaranti sulle sue zie, sulla sua famiglia, dove, però, l’uso del dialetto piemontese rimane incomprensibile non dico a un napoletano, ma a un italiano in generale. In russo, invece, bastano poche parole per identificare un individuo come ebreo, per la particolare pronuncia delle vocali e sopra tutto per l’immancabile erre moscia. In un primo tempo ho pensato di usarla anch’io, ma ho desistito, perché in Italia non è diffusa e se mai caratterizza qualcuno, si tratta dei radical chic di una volta o dei parmensi, non certo degli ebrei.
Quindi, con mio grande disappunto, non ho potuto, ahimè, riprodurre in italiano alcune particolarità che in russo suonano straordinariamente divertenti. A un certo punto mi sono dovuta rassegnare e cedere le armi. Al termine di un lavoro fatto con passione, con grande amore, dedizione e impegno, mi è rimasto un pizzico di amaro in bocca e la consapevolezza che la perfezione non è di questo mondo.
Tradurre è un lavoro faticoso e non sempre gratificante, richiede molto amore e molta passione, ma anche una profonda conoscenza dell’atmosfera, della cultura, del terreno su cui è germogliata la scrittura.
Quando ho iniziato a leggere Krym, sono andata subito a rileggermi autori come Shalom Aleichem, gli ebrei americani, fra cui Saul Bellow, Philip Roth, a mio avviso grandissimo, e sopra tutto Isaac Singer, che mi ha fatto subito pensare a Krym per il tipo di racconto e la profondità di sentimento. Krym, come Singer, resterà uno scrittore classico che non cede al tempo, mentre Shalom Aleichem può ormai dirsi datato. Singer sarà vivo per l’eternità e mi auguro che succeda lo stesso a Krym.
Nella lettera che mi ha pregato di leggervi (si veda articolo dell’Autore in questo numero) troviamo il ricordo personale, il ricordo della sua vita, la ferma aderenza alle tradizioni e il destino dell’ebreo, che è in perenne viaggio, fra diaspora e persecuzioni che lo costringono a muoversi, senza tuttavia togliergli la certezza che, nonostante tutto, prima o poi raggiungerà la sua meta. In lui c’è sempre un ottimismo di fondo che lo anima.
Le pièce teatrali e i racconti rivelano sia il sereno ottimismo dell’Autore, sia l’umorismo benevolo rivolto alle debolezze del suo popolo. Krym guarda l’umanità con occhi compassionevoli, non giudica, non è un moralista, si limita a descrivere l’uomo. Leggiamo pagine splendide dedicate al sogno ebraico della Terra Promessa, all’immensa, incredula felicità di posare il piede su di essa. Noi abbiamo la fortuna di vivere in patria e anche chi, come me, ha girato il mondo tutta la vita, sapeva di poterci tornare in qualsiasi momento desiderasse farlo. Per gli ebrei questo non è stato possibile per millenni, da cui l’inestinguibile anelito a Gerusalemme. Settant’anni di regime sovietico e di dure repressioni non sono riusciti a strappare né le radici profonde del loro legame con la terra dei padri né l’osservanza delle tradizioni.
Un altro aspetto che desidero sottolineare è la grande pietas umana di Krym, che gli consente di vedere con occhi equanimi il dolore dell’una e dell’altra parte: quello dell’ebreo che assiste allo sterminio della sua famiglia per mano dei nazisti, ma anche quello dell’altra parte, ovvero del russo la cui famiglia è stata annientata per rappresaglia dai tedeschi che, a causa di un atto di sabotaggio avvenuto nel villaggio, avevano preso in ostaggio numerosi civili e li avevano fucilati. La descrizione dell’uno e dell’altro dolore è di un equilibrio straordinario, perché il dolore e la sofferenza umana non hanno etichetta, non appartengono a un popolo solo, non sono esclusive di una parte o di un’ideologia. Nessuno può arrogare a sé il vero dolore e negarlo a un altro. È molto bella questa capacità di riconoscere l’identità della sofferenza da parte di chi ha subito la tragedia della Shoah, di scorgere il dolore anche nell’occhio altrui, con altrettanta partecipazione umana.
Desidero infine rilevare un ultimo elemento, oltre tutto molto attuale: il rispetto sia per la propria appartenenza religiosa – l’ebraismo – sia per l’ortodossia. Krym ha il dono di dimostrarlo con straordinaria grazia e levità.
**L'articolo di Elena Corti è tratto dai dibattiti dal titolo La scrittura della felicità, intorno ai libri di Anatolij Krym pubblicati da Spirali, che si sono tenuti il 15 novembre 2012 a Bologna e a Modena.