IMPRESA E FELICITÀ
L’Italia, il racconto. La bottega, l’impresa e l’industria. I beni culturali, beni insostanziali, più che immateriali. L’Italia, paese di viaggiatori e inventori. Marco Polo, Dante Alighieri, Cristoforo Colombo, Leonardo da Vinci, Niccolò Machiavelli, Ludovico Ariosto, Giuseppe Peano. Ciascuno, secondo la logica particolare, narrando, viaggia. Com’è accaduto che, a un certo punto, il viaggio dovesse essere preordinato al risultato? Com’è accaduto che il risultato decidesse il valore del viaggio?
Errando, narrando, la novità, che impedisce di rappresentarsi il risultato. Viaggio linguistico, viaggio narrativo. Il viaggio non è ontologico. Se lo fosse, non ci sarebbero arte e invenzione, non ci sarebbe impresa. Il viaggio esige l’esperienza della parola originaria e procede dall’apertura, dall’ironia. Parola originaria ovvero senza ritorno. Originaria ovvero senza origine, la parola non punta alla restituzione in pristino e non è sottoposta all’assenza di lucidità introdotta dal ricordo.
Che la parola sia originaria, che incominci il viaggio, comporta il rischio di riuscita, proprietà dell’impresa. Se togliamo la memoria e il racconto, allora nulla si fa, nulla si scrive, nulla si cifra. “Sempre quelle imprese che con pericolo si cominciono si finiscono con premio, e di uno pericolo mai si uscì sanza pericolo”, nota Machiavelli nelle Historie Fiorentine. Impresa come viaggio, percorso e cammino che non finiscono, in cui il valore non è solo nel fatturato, ma è dato anche dall’itinerario, dalla direzione che esige per ciascuno lo statuto di imprenditore. Questo il valore del viaggio dell’impresa, viaggio narrativo che i burocrati non riescono a mettere a bilancio perché non possono farne la somma. Che l’impresa sia narrativa, che non sia esente da parola consente che non ci sia sistema, ma semmai strategia della parola e arte della politica, politica narrativa, politica dell’ascolto e della comunicazione. Il sistema invece è esente dalla parola, è sistema delle coperture, delle garanzie prestabilite che, come dimostrano le cronache italiane, non tengono più. Il sistema si fonda sulla paura della differenza, paura dell’aumento e dell’abbondanza di cui l’impresa e la sua scrittura non possono fare a meno.
L’imprenditore e scrittore ebreo ucraino Anatolij Krym testimonia proprio questo aspetto dell’impresa, procedendo dall’ironia che si snoda nei suoi Racconti intorno alla felicità ebraica e nelle pièces teatrali Il testamento del donnaiolo illibato e La clandestina (Spirali). Krym sottolinea che alla scrittura segue l’approdo alla salute. Questo approdo non è scontato, richiede il compito di vivere. Il compito di vivere, nonostante tutto. Il compito di vivere che espone ciascun giorno al rischio di vita. Ciascuno ha la chance di vivere con questo rischio, dicendo, facendo, scrivendo. La vita prosegue, nonostante tutto, nonostante non ce ne possiamo privare e non ne possiamo avere il possesso.
La scrittura è la scrittura delle cose che si fanno, scrittura pragmatica delle cose che, scrivendosi, giungono a compimento. Nel viaggio che abbiamo avviato per la costruzione della città del secondo rinascimento constatiamo come nell’incontro e nel fare le cose non finiscono, le idee non finiscono, le risorse intellettuali non finiscono, la scrittura non finisce. L’impresa che assume la paura della fine è ricattabile, deve affiliarsi, in alcuni casi perfino svendersi, com’è accaduto a tante imprese di eccellenza del nostro paese. Il sistema, guardiano della paura, sorge per annullare la speranza, lo spirito costruttivo, l’industria e l’ingegno che occorrono nella battaglia per la riuscita. È l’offerta che avvia un processo di ricerca, è un’istanza di aumento e di abbondanza che non consente decrescita felice. Le imprese del secondo rinascimento sono imprese in viaggio, un viaggio che non finisce e che si precisa e si qualifica in ciascun incontro. Fino all’approdo alla cifra. E questo approdo non è mai una volte per tutte.
Il fare esige l’auctoritas (dal latino augeo, aumento), l’incremento, la crescita. Ciascuno che si trova nella parola, nel fare, nella battaglia quotidiana per la riuscita ha da mettere in gioco i talenti, industriandosi. “In ogni paese con lo esercizio si fa buoni soldati; perché, dove manca la natura, sopperisce la ‘ndustria, la quale in questo caso vale più che la natura”, scrive ancora Machiavelli. Ovvero il processo di valorizzazione delle cose esige la virtù, che interviene per un esercizio. Questa virtù è sempre artificiale, non naturale. L’industria esige ingegno e intelligenza, costruzione e produzione. Altro che decrescita felice per costruire la civiltà, la civitas, la città. Non si tratta quindi di contenere le risorse, di risparmiarsi, sarebbe come contenere i talenti, che non si conoscono e possono constatarsi facendo. Ciascuno vince perché non risparmia e non si risparmia lungo la strategia della parola, e questo produce un altro valore e un altro profitto. Auspicare la decrescita sarebbe desiderare un ritorno all’origine, secondo il fantasma materno, dimenticando che già con il testo di Leonardo la natura è artificiale, non materna. Ambire alla decrescita significa condannare le generazioni future all’infelicità, all’assenza di qualità, all’assenza di impresa nella parità assoluta dinanzi alla morte, negando il fare, che è nell’atto, e la sua proprietà - il tempo, che qualifica - in modo che la misura del valore sia data dal fallimento anziché dall’approdo alla cifra. Anche per questo il brainworker instaura dispositivi di parola, dispositivi organizzativi, finanziari, direttivi, in modo che le idee operino alla scrittura dell’esperienza fino alla felicità, fino all’approdo al valore assoluto.
**Il testo di Caterina Giannelli è tratto dal suo intervento al dibattito dal titolo La scrittura della felicità, intorno ai libri di Anatolij Krym pubblicati da Spirali (Teatro San Salvatore, Bologna, 15 novembre 2012)