LE MACCHINE SONO L’UOMO
Possiamo pensare che anche la conoscenza sia lavoro? Per farlo, dobbiamo lasciarci alle spalle la distinzione tra conoscenza e lavoro, cosa impossibile per Aristotele, perché la sua era una società schiavista, piramidale, costruita aristocraticamente. Noi, invece, siamo in una società democratica, con attribuzioni lavorative differenti e compiti sociali variegati. Eppure, abbiamo unificato tutte le attività umane sotto un’unica categoria: il lavoro, ereditando una vecchia concezione del lavoro, che comporta una vecchia concezione della cultura. Pensiamo che la cultura sia libresca, accademica, e il lavoro, invece, sia la macchina, la tecnica, la meccanizzazione, la specializzazione, l’applicazione analitica.
In realtà, credo che queste cose si stiano unendo e che stia emergendo sempre di più una grande verità: tutta la cultura è lavorativa, tutta la cultura è un lavoro e anche conoscere è operare in maniera lavorativa.
Ma, a questo punto, che cos’è “lavoro”? Il lavoro è analisi meccanica. Il lavoro è meccanismo. Di solito c’è una svalutazione nei confronti della macchina, ma la macchina è la più grande costruzione che l’uomo abbia mai potuto mettere in piedi, anzi, l’umano è la costruzione di macchine. Infatti, la prima macchina senza la quale nessuno di noi sarebbe umano è il linguaggio. Il linguaggio è un automa. Il linguaggio non è il luogo nel quale, dopo avere pensato, decido di far passare il pensiero all’espressione linguistica. Semmai, io sono la mia espressione linguistica e il linguaggio non l’ho fatto io, non sono nato e ho deciso di parlare italiano anziché cinese. Hanno parlato a me. Mi hanno fornito di questa macchina che la tradizione ha via via selezionato, l’italiano che parliamo oggi, che certamente cambia continuamente, perché continuamente si mette in situazione, ma nessuno di noi fa il linguaggio. Ciascuno è parlato dal linguaggio.
Il linguaggio è la prima grande strumentazione, la prima “cassetta degli attrezzi” di cui l’homo sapiens si è giovato per analizzare l’esperienza. Immaginiamo che cos’è l’esperienza per un bambino infante: il mondo gli viene addosso attraverso le capacità che la vita naturale gli ha dato (vedere, toccare, annusare, sentire). Egli lo articola come la natura gli ha insegnato a fare, come gli animali sanno fare, con grande intelligenza, ma è un’intelligenza operativa, pratica. Il bufalo che deve attraversare il fiume ed evitare i coccodrilli sa benissimo come fare; non sempre va bene, perché anche il coccodrillo sa benissimo come fare. È un gioco in cui il corpo è l’azione stessa, in cui c’è un “saper fare”, ma non un vero sapere. Il vero sapere accade quando l’azione si ferma e noi siamo in grado di analizzarla. Ma come avviene, come fa il bambino ad analizzare una situazione? Con le parole. Con questi strumenti, questi utensili meravigliosi che sono le parole. Strumenti analitici, naturalmente, che hanno diviso l’esperienza, semplicemente dicendo: “Sole, luna, terra, acqua, capanna, casa, noi, voi, io, tu”. Abbiamo in mano i primi strumenti analitici attraverso i quali possiamo, in qualche modo, conoscere. “Conoscere” è avere strumenti di analisi, cose, segni che stanno al posto dell’esperienza globale e la sminuzzano.
La macchina è questo: la possibilità di tradurre l’azione sintetica della vita in una segmentazione che, punto dopo punto, analisi dopo analisi, rimette insieme la vita. E allora ne abbiamo una rappresentazione esterna. La conoscenza è questo: una rappresentazione analitica esterna della situazione di partenza. Solo allora l’infante dice: “Pierino ha fame, Pierino ha sonno”. Dice “Pierino” perché ha imparato dagli altri che lui è Pierino, non è nato come Pierino, naturalmente. “Pierino” è una maniera analitica per riferirsi a se stesso. Lui è una vita complessiva, però gli hanno dato un gettone, un segno, uno strumento con il quale può consapevolmente riferirsi a sé, cosa che nessun animale è in grado di fare. E allora, in questo modo, non ha soltanto fame, sa che ha fame. E può dirlo, può esprimerlo analiticamente. È un grande salto avanti quando può dirlo lui, quando lui è diventato “lui”. Ma lo è diventato attraverso questo lavoro di riflessione su di sé del linguaggio, senza il quale noi non avremmo nessun sapere, nessuna conoscenza, nessuna tecnica.
Questo però è lavoro. “Lavoro” è costruire macchine che sminuzzano l’esperienza e che ci danno, quindi, la capacità di governarla, orientarla, prevederla. È ciò che ha fatto Galileo, la scienza moderna nasce tutta da qui, dal fatto di dire: “C’è un grave che scende”. Sì, ma come scende? Questo è il punto. Tutti sappiamo che, se il grave scende, anche l’animale si fa da parte. A noi, però, non basta farci da parte: abbiamo a disposizione una conoscenza reale e una potenza reale, per dir così, quando possiamo prevedere come cadrà, quando possiamo saperlo prima, attraverso una scrittura analitica, attraverso l’orologio e le sue tacche. Dicendo: “Tacca uno, tacca due, tacca tre… ma guarda: sempre più veloce!”, misuriamo quanto è più veloce e, alla fine, possiamo scrivere una formula matematica. Una formula matematica è una macchina. E le macchine sono l’uomo.
È una grande balla quella che attribuisce all’uomo chissà quale valore e considera le macchine qualcosa di modesto, di umile. L’essere umano, la cultura umana è una costruzione meravigliosa di macchine, attraverso le quali la vita sintetica animale di cui siamo forniti acquisisce consapevolezza di sé, si trascrive su nuovi supporti e, trascrivendosi, si conosce. E questo lavoro di trascrizione e di conoscenza è quello che ci potenzia sempre più nell’azione. Questa è la prima cosa di cui dobbiamo essere consapevoli e per questo bisognerà cambiare l’istituto educativo, bisognerà capire che le cose si conoscono là dove si fanno – e non soltanto là dove si leggono o si sentono dire –, là dove possiamo acquisire strumenti per padroneggiare le macchine. Se ai giovani insegniamo astrattamente la grammatica, anziché a usare il linguaggio, avremo giovani pieni di emozioni, che non hanno gli strumenti per dirle, o hanno strumenti di una tale povertà che non servono per la comunicazione, per l’invenzione, per l’innovazione. È inutile parlare d’innovazione, se non si dà una cultura. L’innovazione non viene dal cielo. Non esiste chi è innovatore e chi non lo è, ma chi ha gli strumenti e chi non li ha. E questi strumenti vanno dati, come lavoro e non semplicemente come teoria. Quindi, dovremo cambiare le istituzioni scolastiche. L’università sta cambiando, inevitabilmente, e finalmente incominciano a nascere progetti pilota come questo dell’ITS, che suscita tanto entusiasmo nei giovani. Oggi bisogna entrare nella pratica del fare per comprendere la pratica del sapere. Sia il sapere sia il fare sono pratiche, e non vanno mai disgiunte.
Voglio aggiungere però un altro punto. Si dice spesso che c’è un grande mondo fuori, che non s’identifica più con la nostra realtà locale, per cui dobbiamo fare cose che abbiano una dimensione internazionale; ma si dice anche che ci sono esseri umani che mirano a una società migliore, come sempre è accaduto nella storia, e che si cerca di vivere bene, se ce la facciamo, e di vivere meglio: questo sarebbe l’ideale che guida tutti noi. Una cosa, però, dev’essere chiara, ed è compito specifico della filosofia ricordarla. Ho detto che la macchina è l’uomo. L’uomo è la costruzione di scritture, di analisi, di strumenti attraverso i quali la realtà viene spezzettata, per cui ne abbiamo il controllo: a partire dal linguaggio, arrivando fino alla scrittura matematica, alla scrittura tecnica, alla scrittura delle macchine elettroniche. Pensiamo alla televisione: un punto più un altro punto, più un altro punto, e così via, fino a ottenere la figura d’insieme. Questa è la nostra forza: noi, e solo noi, in natura, lavoriamo, perché lavorare è questo. Gli animali non lavorano: il loro lavoro l’ha fatto la selezione, per dir così. Loro non hanno bisogno di apprendere, però sono affidati al destino e, molto spesso, a noi, che gli cambiamo l’atmosfera e l’intera esistenza. Un giovane, che studia e lavora in Spagna nel settore dei cambiamenti climatici, mi diceva che molte specie di uccelli che tornavano in Africa si accontentano della Spagna, tanto c’è caldo come in Africa.
Sono fenomeni che stanno cambiando la nostra visione, ed è analiticamente un lavoro prendere coscienza dei problemi che ne emergono. Però, attenzione: è vero che la cultura umana è una grande macchina che produce uomini sapienti, ma ciò che l’uomo sa e ciò che questa macchina analizza è, nondimeno, qualcosa di sintetico, di unitario. Se diciamo che bisogna vivere meglio, ricordiamo che nessuna macchina darà una risposta alla domanda: “Come potremo vivere meglio?”. Potremo avere molti strumenti per vivere meglio, ma che cosa realizza il “vivere meglio” è un problema complesso, unitario, sintetico, che oggi non significa più soltanto come si vive meglio in Emilia o in Italia, ma come si vive meglio sul pianeta. Perché il pianeta è investito dalle nostre potenze conoscitive, dal nostro lavoro, e ne è profondamente trasformato, in meglio o in peggio, con grandi problemi che ci assillano e c’inseguono in maniera pericolosa per tutti.
Allora, la grande domanda è: “Con quale tipo di conoscenze e di lavoro possiamo ricostituire l’intero?”. Non basta dire: “Questa macchina funziona benissimo, ottiene lo scopo per il quale l’abbiamo costruita ed è efficientissima a Pechino come a New York”, che è l’ideale della conoscenza. Questa nozione non è assolutamente sufficiente per dire come si deve vivere per stare meglio a Pechino o a New York.
Questo è il problema complessivo dal quale tutti siamo partiti, perché tutti siamo vita sintetica. È come il bambino infante: una vita che desidera, una vita che ha bisogni, passioni, alcune positive, altre anche negative. Poi gli diamo in mano il linguaggio, per poter analizzare la sua vita, per poterla esprimere, governare, guidare. Ma il linguaggio, di per sé – il vocabolario dell’italiano che gli abbiamo dato – non è sufficiente, non è una macchina in cui basta introdurre la domanda: “Cosa dovrò fare per vivere meglio?”, come se fosse un elaboratoro elettronico, per avere la risposta.
Allora, come possiamo orientarci per avere una risposta in questo senso? Non credo che ci sia una risposta specifica. Ci sono alcune cose che hanno un’utilità immediata, che sono utili per la nostra conoscenza, che sono analiticamente efficienti e potenti. Poi ci sono cose che non servono a niente. Bisogna proteggere le cose che non servono a niente. Queste cose, anch’esse, vanno messe dove si lavora, vanno messe accanto al lavoratore, accanto all’analisi, accanto alla macchina, accanto allo strumento.
Oggi si cerca di rendere i luoghi di lavoro più accoglienti, magari con accorgimenti architettonici che consentono alla luce esterna di entrare meglio. Questo non serve a fare migliori macchine, ma a fare migliori esseri umani, naturalmente. Allora, c’è un’arte della produzione meccanica, della produzione di macchine, nella loro potenza analitica sempre più straordinaria, e c’è un’arte della produzione di ciò che non serve a niente. Queste arti si definiscono con la stessa parola: téchne, che in greco vuol dire “tecnica”, ma anche “arte”, quella degli artisti. Per questo credo che ciascuno, anche se è un costruttore di macchine, debba, per dir così, amare le sue macchine. E l’amore non è utilitaristico, l’amore non ha scopi. Amare vuol dire frequentare una cosa che non si giustifica per gli effetti che dà, ma per ciò che è. Allora, soltanto quando avremo messo insieme l’amore del sapere per ciò che è con l’amore del sapere per ciò che fa, per ciò che produce, quando noi, non soltanto potenzieremo la nostra conoscenza e avremo tante conoscenze, quindi tante macchine, tante tecniche, ma sapremo anche cosa farcene, solo allora avremo una società giusta, una società buona. Solo allora, in breve, si vivrà meglio su questa terra.
**Il testo di Carlo Sini è tratto dal suo intervento al Convegno ITS: la tecnica per crescere. Un’opportunità per i giovani tra formazione e lavoro (22 settembre 2012, Museo Casa Enzo Ferrari, Modena).