IL BELLO DELLA PROVA
Ognuno immagina che la tentazione sia diabolica perché offrirebbe la sostanza per la riuscita facile. “Questo mi tenta”, oppure “Suvvia, non tentarmi”: così, la sostanza crea il soggetto tentato, che saprebbe o no difendersi dalla tentazione. Soggetto eroe, che resiste, che vive nel principio di ragione sufficiente e del minimo male necessario. Un soggetto, in definitiva, dappoco, come scrive Mark Twain nel saggio Seguendo l’equatore: “Ci sono parecchie difese valide dalla tentazione, ma la più sicura è la viltà”. Di tutt’altra natura la tentazione senza resistenze e difese, la tentazione non diabolica, che non fonda il soggetto: tentazione intellettuale, senza riferimento alla sostanza e al soggetto, perché è virtù della parola e del suo principio. Come l’arbitrarietà, la libertà, la leggerezza. La tentazione senza soggetto è principio della parola, perché esclude il demonismo, il finalismo, il pericolo, il peso: nulla è pericoloso e pesante nella parola, quando non c’è sostanza né soggettività. Il soggetto, che sa già cosa fare, che sa come economizzare il male, rifugge dalla tentazione intellettuale. La ricerca e l’impresa non si fondano sull’idea di male da economizzare, non dipendono dal sapere. Come riuscire senza tentare? Tentare impedisce che il fare si sottoponga al saperci fare e alla prestanza soggettiva che impediscono la riuscita, perché la localizzano, la figurano, la contemplano. Tentare, perché, provando, la tensione risulta intellettuale, tensione verso la qualità. La prova è creduta eroica se non poggia sulla tentazione intellettuale. Senza questa tentazione, allora “ci provo” o “non ci provo nemmeno”, partendo dai miei criteri soggettivi. La prova eroica procede della paura e dal suo superamento, a partire dal dubbio di sé e dal dubbio dell’Altro. Anziché provare, “dare prova di” risponde alla mitologia dello standard. Provare: la prova procede dalla tentazione come virtù del principio e esige lo sforzo. La prova è sforzo intellettuale, non sforzo eroico che, dovendo raggiungere la performance o lo standard, diventa sforzo sacrificale. Ogni religione sociale e politica chiede ai soggetti/sudditi i sacrifici in nome dell’avvenire. Altra la prova intellettuale: come cercare, come fare, come scrivere, come riuscire. E Armando Verdiglione scrive nel libro L’affaire fiscale (Spirali): “L’entusiasmo e la gioia sono i due assi della prova, il terzo asse è lo spirito costruttivo”. La prova è in atto nella ricerca e nell’impresa, per chi non ha già provato, per chi non ha già fatto, per chi non ha già detto. “Sono provato”, dice il soggetto della prova, oppure “Ho provato, ma mi è andata male”. La prova non va in direzione del bene o del male, ma in direzione del compimento e della riuscita. Per questo, provare è indispensabile alla ricerca e al fare, quindi alla riuscita. Il bello della prova, il gusto della prova. Invece, il discorso giudiziario parla dell’onere della prova, che diventa onerosa, pesante, difensiva o accusatoria. Riuscire non è facile, segue al tentare e al provare. La riuscita è intellettuale, ovvero non c’è accesso diretto alla riuscita. La riuscita esige che l’idea operi e non agisca, che non sia l’idea che ho in testa, e nemmeno l’idea della riuscita. L’idea opera nella parola, non nella propria testa, opera, in modo costruttivo, nel dispositivo di parola, nella conversazione analitica. L’idea esige l’analisi perché non salti l’ostacolo, perché non eluda l’obiezione, perché non sia soggettiva. E l’idea dell’ostacolo non può togliere la fede, ma è la fede stessa. Occorre la fede nella riuscita, che non è la promessa della riuscita, ma è l’idea che opera perché le cose, cercandosi e facendosi, si scrivano, quindi riescano e si cifrino.