ROBERT SCHUMANN: UN CASO DI QUALITÀ, NON DI PAZZIA

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professore di Neurologia e Psichiatria all’Università di Colonia, membro onorario dell’Associazione Mondiale di Psichiatria

Nel suo libro Robert Schumann e i tredici giorni prima del manicomio (Spirali), lei parla dell’ultimo periodo di vita del compositore, prima che venisse ricoverato. In seguito, lei ha pubblicato un altro libro intorno a Schumann, non ancora uscito in Italia...

Il primo libro riguarda gli ultimi tredici giorni antecedenti il ricovero di Schumann in manicomio. Tredici giorni esatti, che vanno dall’ultima volta in cui aveva fatto l’amore con sua moglie Clara alla decisione che dovesse essere rinchiuso per sempre in manicomio. In quei giorni Schumann ebbe un delirium tremens, imputabile all’alcol, che i suoi due medici scambiarono per pazzia. Ma non era pazzia, quando venne internato ancora non manifestava alcun segno psicologico di tale genere. Dietro la decisione d’internamento c’erano in realtà anche differenze di vedute fra lui e sua moglie. Inizialmente Schumann scambiò l’internamento per un periodo di vacanza. Sempre accompagnato dai medici, faceva lunghe camminate nelle città limitrofe, ma dopo cinque o sei mesi dovette constatare che nessuno andava a trovarlo. Nel frattempo era nato il suo ultimo figlio, e non era stato nemmeno avvisato dell’avvenimento. Allora capì che si trovava in un manicomio e che non sarebbe stato facile uscirne. Di questo tratta il secondo libro, nel quale ho studiato e analizzato una mole consistente di nuovi documenti.

Dopo essersi reso conto dell’internamento, Schumann iniziò a chiedere di uscire, ma soprattutto di abitare di nuovo con la propria famiglia. In questo periodo scrisse lettere molto belle, che persino sua moglie riconosceva come le migliori che avesse mai scritto. Quasi nessuno andava a trovarlo perché Clara, l’unica a poter autorizzare le visite, solitamente negava il permesso a chi lo chiedeva. Tuttavia, una famosa scrittrice tedesca riuscì a vederlo e disse che, se gli avessero permesso di tornare con la propria famiglia, sarebbe stato bene. Aveva perfettamente ragione, ma Clara non voleva assolutamente che Schumann tornasse da lei. Vi furono diversi contatti e discussioni, e alla fine Clara scrisse una lettera ai medici del manicomio in cui dichiarava di non rivolere indietro il marito perché non sapeva cosa farsene.

Nel suo libro lei analizza documenti come questa lettera?

Sì, certamente, perché i documenti parlano chiaro. Nel frattempo, era incominciata una storia d’amore fra Brahms e Clara. Lo stesso giorno in cui Schumann venne mandato in manicomio, Brahms andò a vivere a casa sua. Alla fine Schumann comprese l’esistenza di questa storia d’amore e scrisse un’ultima lettera a Clara. Ho avuto modo di vederne una copia, ed è assurdo pensare che sia stata scritta da un pazzo. È una lettera normale, che allude a molte questioni a me ignote, per conoscere le quali ho iniziato una scrupolosa ricerca. Così, in seguito alla decisione definitiva che non sarebbe mai potuto tornare a casa, Schumann non scrisse più a Clara e pochi giorni dopo bruciò tutte le sue lettere. Esistono documenti che lo attestano, anche se in seguito Clara dichiarò che lui le aveva sempre conservate con cura: i documenti testimoniano che le bruciò. In quel momento, quando capì che non l’avrebbero più fatto uscire dal manicomio, le sue condizioni, soprattutto fisiche, iniziarono a deteriorare. Continuava a lavorare, a comporre, a scrivere, ma i suoi medici non lo favorivano affatto in tali attività, erano interessati solo a guadagnare dal suo internamento, dato che dal punto di vista economico era un ottimo cliente. Si è sempre detto che la moglie pagasse per lui, ma Schumann aveva fondi personali in abbondanza, percepiva gli incassi delle rappresentazioni delle sue opere che si svolgevano in ogni parte del mondo, da New York al Sud Africa, anche se non gli fu mai permesso di presenziarvi.

In seguito al peggioramento delle sue condizioni di salute, i medici scrissero a Clara di andare a fargli visita, se voleva vederlo ancora in vita. Lei andò, ma non ebbe il coraggio di vederlo, così ritornò a casa a Düsseldorf. Successivamente, quando Schumann stava realmente morendo, Clara venne chiamata nuovamente, questa volta da Brahms, e riuscì a vederlo. In seguito all’incontro, Clara riportò che il marito aveva cercato di abbracciarla, ma era così debole che non c’era riuscito. In realtà il giorno successivo Schumann era capace di alzarsi, di camminare e di sistemare le sue cose normalmente: se ne trova riscontro nei documenti.

Solo alcuni mesi dopo la sua morte, provocata da una polmonite, i medici sostennero che era sifilitico, ma non sono mai stati trovati documenti che lo attestino. Nel 1956 furono ritrovati documenti nei quali tutti gli specialisti dichiaravano che il suo caso non aveva nulla a che fare con la sifilide. Tuttavia, in Germania la gente continua ancora oggi a credere a questa storia. La verità è che Schumann morì di solitudine. In un intero anno, neanche una persona andò a trovarlo, poi solo Brahms andò da lui e vi rimase per soli dieci minuti. Tutto questo è attestato nel mio libro da documenti, pubblicati e non pubblicati, e nessuno può dubitarne. Anche il famoso aneddoto secondo cui Schumann tentò di suicidarsi gettandosi nel Reno probabilmente è falso. Nessuno l’ha visto, tutti ne hanno solo sentito parlare da qualcuno, che a sua volta l’ha sentito dire. Non ce n’è alcuna prova, anche Clara non lo sapeva, solo in seguito ne sentì parlare. La vera malattia di Schumann fu proprio la solitudine e l’assenza di contatti con persone che vivevano fuori dal manicomio, una sorta di tortura che distruggerebbe qualsiasi personalità. Questo libro si discosta completamente dalle trattazioni ordinarie, può essere considerato una rivoluzione nell’analisi del caso Schumann: chiunque l’abbia letto ne è stato convinto e lo vede come la testimonianza di una storia criminale. Solo coloro che non hanno letto il libro sostengono che non può essere vero perché loro “conoscono meglio la storia”.