IL VALORE ORIGINARIO DELLA PAROLA
La psicanalisi ha avuto in Europa un destino singolare. Come scrive Sergio Dalla Val nel suo libro In direzione della cifra. La scienza della parola, l’impresa, la clinica (Spirali), è stata avversata dal partito comunista e dalla chiesa. I comunisti erano contrari perché le nevrosi erano considerate il portato del capitalismo, sostenevano che in Russia i lavoratori non hanno nevrosi, sono talmente realizzati nel loro lavoro che non hanno nulla di cui curarsi, la nevrosi è un sintomo borghese.
La chiesa vedeva nella psicanalisi una concorrente un po’ troppo diretta sul piano della colpa, ovvero della confessione, che essa ha sempre svolto gratuitamente, con la funzione, presunta della psicanalisi, di tranquillizzare.
Ma forse il danno maggiore alla psicanalisi è derivato dal riduzionismo psicanalitico, dal fatto di non cogliere subito che persino il suo fondatore non indugia sulle tecniche psicanalitiche, ma passa rapidamente dal caso clinico alla teoria generale. Freud, dopo pochissime testimonianze sui casi clinici, che provano un suo empirismo dichiarato, s’inoltra in intuizioni e teorie sulla sessualità nei bambini, sul ruolo dell’inconscio nella vita complessiva di una persona, sulla natura dei sogni, sulla struttura del potere politico, sul disagio della civiltà, sull’origine della religione e delle credenze religiose. Non capire che la psicanalisi non è una setta per iniziati, né un metodo finalizzato alla cura dei sintomi nevrotici, ma è qualcosa che ha aperto un orizzonte che va esplorato è il danno maggiore inferto alla psicanalisi. Lo hanno fatto psicanalisti come Cesare Musatti che, negli anni ‘60, pur essendo considerato il pioniere della psicanalisi in Italia, dice chiaramente che è destinata a finire: non ci sarebbe più stato bisogno della psicanalisi perché nel giorno in cui si sarebbe edificato il comunismo, sarebbe stata fatta giustizia.
Le proiezioni della psicanalisi vanno in tantissime direzioni. Io trovo che Armando Verdiglione, dalla cui teoria Dalla Val trae molti spunti, tra tanti protagonisti della cultura italiana, sia l’intellettuale che ha tentato di sviluppare le più aperte, le più filosofiche, le più ardue direzioni che possano esplicarsi a partire dalla psicanalisi.
Da quando Verdiglione, Dalla Val e altri ricercatori hanno introdotto nel mercato culturale la parola cifrematica, ci sono stati diversi tentativi interpretativi. Qualcuno vuole considerarla una modifica delle tecniche della psicanalisi, ma sarebbe riduttivo. Ci sono sempre state differenze di scuole tra psicanalisti, ma non si tratta di questo, qui siamo su un gradino superiore, che porta il terreno di Verdiglione direttamente sulla riflessione filosofica. Infatti, quando si definisce la cifrematica come scienza della parola, per parola non s’intende il chiacchiericcio. Con la scienza della parola torniamo a una grande tradizione, torniamo alla questione da cui era partita la filosofia: che cos’è l’arché? Qual è il punto di partenza? Lo gnòthi seautón, il conosci te stesso, scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi? Conosci te stesso: ma come? Non c’è presa diretta, non c’è mutismo. C’è un solo modo per conoscere se stessi: la parola. La parola non è una banalità, un vezzo, una convenzione, è l’unico vero strumento col quale l’uomo può dire, creare, costruire. È inutile cullarsi nell’idea che il pensiero esista senza la parola. La parola è nella mente stessa di chi la pensa, è la struttura portante della nostra mente. Questo concetto è scritto anche all’inizio del Vangelo di Giovanni: in principio (arché) c’è la parola (logos). Logos vuol dire la parola ordinata, non la chiacchiera, non la banalità. La parola che è ordine, la parola fondativa del mondo, la parola che è Dio e che si è fatta carne.
Questa lezione è ripresa in piena filosofia scolastica. Di cosa discutevano i domenicani e i francescani? Se il primato appartiene alla parola o alla realtà. Per i realisti all’Abelardo, i concettualisti, “in principio c’è qualcosa, in principio c’è l’io”, mentre per gli altri, i francescani soprattutto, “in principio c’è la parola e noi dobbiamo comunque esprimere e condurre tutto alle parole”. Senza esagerare si arriva al grande Ludwig Wittgenstein, che non era psicanalista. Anzi, era anche abbastanza critico verso Freud (che prese in cura sua sorella), lo accusava di riduzionismo, soprattutto in materia sessuale e nell’interpretazione dei sogni. Però Wittgenstein, nella prima fase della sua vita tentò di trovare la parola logica, cioè di costruire un Tractatus Logico-philosophicus, un libretto che in poche parole contenesse il mondo. Una parola precisa come un coltello, come diceva Cartesio, così precisa da esprimere cose evidenti, chiare e distinte, non una parola di troppo. Poi, verso la fine della sua vita, si rese conto che quel libro era sbagliato, e che la parola consente un’infinità di giochi, da qui la sua teoria dei giochi linguistici. Infine ha concluso che “su ciò su cui non si può parlare” – perché non hai le parole, non ci riesci, hai toccato tutte le possibilità umane della parola – “bisogna tacere”. Il valore del silenzio è straordinario come limite della consapevolezza dell’uomo.
Quando la cifrematica con la sua proiezione verso la scienza della parola si muove in questa direzione è una specie di filosofia. È una filosofia che si pone su quel terreno che veniva chiamato nominalismo. E non a caso Dalla Val scrive di quella che chiama “teoria della nominazione”.
Non mi stupisce che a Torino rinasca una filosofia che si chiama realismo, i cui fondatori sono, tra gli altri, Umberto Eco e Maurizio Ferraris, i soliti che dal sessantotto dominano il dibattito culturale italiano. In realtà hanno soltanto chiacchierato, non hanno mai fatto un uso della parola che avesse un valore originario, un valore essenziale dove, parlando, ciascuno mette in gioco davvero la sua identità, la sua vita, come esigono le parole scolpite sul tempio di Apollo, fino al silenzio di Wittgenstein.