IL SILENZIO DELLA POESIA

Qualifiche dell'autore: 
baritono, poeta, linguista, docente al Cambridge Centre of English, Modena

In questo numero del giornale indaghiamo la combinazione fra il pensiero come logica della parola, anziché come contenuto da trasmettere con le parole, e la qualità della vita. Se la poesia è prima di tutto parola, cosa può dirci dell’influenza della poesia nella vita?

Noi siamo parole e, come affermava Jacques Lacan, non parliamo un linguaggio, ma ne siamo parlati. È importante capire che noi siamo linguaggio e siamo strutturati dal linguaggio, non siamo noi a strutturarlo. E penso che l’interesse del poeta stia nel suo lavoro all’incudine, il lavoro in cui, come un fabbro, plasma con il martello la materia dell’essere, ossia le parole. Egli non deve soltanto costruire ma anche decostruire con le parole. Costruire e decostruire era ciò che faceva lo stesso Shakespeare, in quanto poeta universale non situabile nel suo tempo. Ed è ciò che dobbiamo fare noi, seguendo la tradizione post-moderna: analizzare ed esplorare la natura del linguaggio con le sue assurdità e i suoi paradossi.

Con il linguaggio, abbiamo l’illusione di creare i nostri miti: “Io sono nelle cose che dico a me stesso”. In questo c’è anche un senso di auto-mitologizzazione. Un poeta serio, invece, deve lavorare nel solco di una tradizione in cui siano presenti non solo la memoria e i modelli precedenti, ma anche le trasformazioni dei miti. Lavorare nel presente per creare nuovi orizzonti di senso. Come diceva T. S. Eliot: “Le parole dell’anno scorso appartengono al linguaggio dell’anno scorso, e le parole dell’anno prossimo sono in attesa di un’altra voce”. 

Se la poesia fosse soltanto un’esperienza di mimesis, saremmo ancora alla caverna di Platone. E allora i poeti sarebbero messi al bando con l’accusa di produrre illusioni. La mitopoiesi confonde le cose, anziché chiarirle. Al di là dell’illusione, invece, c’è una luce alla quale possiamo accedere quando decostruiamo le parole, e questa è l’impresa in cui s’impegna la poesia, soprattutto quando raggiunge gli apici del secolo scorso, con poeti come Eliot, Rilke, Valérie…

E Walt Whitman?

Certamente. Whitman diceva che “non esistono grandi poeti senza grandi lettori”. In questo senso la tradizione e la memoria sono importanti. Il valore di un poeta si vaglia nella tradizione in cui egli si situa. Eppure, la grandezza di Whitman sta nell’avere cantato l’individuo, anche in contrasto con i miti collettivi, o le menzogne. Oggi l’attenzione è rivolta all’individuo, ma nell’antichità i poeti creavano miti per la collettività. Virgilio, per esempio, cantò la nascita di Roma. Invece, l’orizzonte di senso individuale è uno dei principali temi di Shakespeare: Amleto, per questa via, è un personaggio moderno e il Re Lear può essere considerato un dramma post-moderno, che poteva essere proposto nel XX secolo, prima non poteva essere capito, è troppo aperto, troppo anarchico, esplora il disagio, il senso di frammentazione e di futilità. Chi ascolta persone che si trovano in un’inquietudine sa che Shakespeare lo ha preceduto. È ciò che diceva Freud: “Dovunque vada, scopro che prima di me c’è stato un poeta”. Nella letteratura psicanalitica, Rilke è molto citato. Lavorando con il grande scultore Rodin, egli capì che il canto è l’essere: “Gesang ist Dasein”. Questo è il mito orfico. La pietra detta la sua forma.

Il grande scrittore satirico, contemporaneo di Freud, Oskar Panizza sferrò il primo attacco nella storia all’uso della psichiatria come strumento di omologazione del pensiero, uno strumento politico che spesso gli artisti, i poeti e gli scienziati hanno sperimentato loro malgrado…

La poesia si fa nel silenzio e nella solitudine, due condizioni che il mondo esterno aborre. Nell’horror vacui del mondo esterno, il silenzio e la solitudine sono impossibili. E questo credo che sia il contributo politico della poesia: la poesia sfida ciascuno come lettore a sedersi a tu per tu con un’altra voce, “noi due”, e a sospendere le pretese egoistiche e personali per ascoltare una persona alla quale delega responsabilità e merito. Fortunatamente, ho avuto maestri che mi hanno fatto capire che cosa fosse la qualità. Viviamo in una società che ha letteralmente escluso l’accesso alla solitudine e al silenzio. È destabilizzante per l’individuo se prima lo definiamo in relazione alla collettività e poi lo priviamo dei valori collettivi. Nell’assenza di valori possono insediarsi altri miti, miti di consumo, grazie alla diffusa attività pseudo-poetica del marketing. Oggi siamo bombardati da forme d’arte degenerata, che hanno l’unico scopo di farci sentire mancanze che poi vengono colmate dai beni di consumo. La poesia è salutare perché non crea miti e mancanze da colmare. A parte la poesia romantica, che si abbandona alle false credenze. Parlo di quella forma di poesia della soggettività oltre la quale molti purtroppo non vanno. Dovremmo capire che il nostro problema è la soggettività, perché porta all’isolamento. Eppure, la forma di poesia che interessa di più è quella basata sulle emozioni, quella su cui molti tarano anche la loro vita emotiva. Per non parlare del genere di musica di cui il mondo è saturo: pericolose forme di violenza e affermazioni ipertrofiche dell’io. Il direttore di una famosa casa discografica disse una volta che il rock è adolescenza istituzionalizzata. L’adulto è una persona che si accorge dell’esistenza degli altri, mentre questo tipo di musica fa leva esclusivamente sull’io soggettivo. Per questo è problematica. 

Goethe era così sensibile che si rifiutò di aprire un manoscritto inviatogli da Mendelsshon, perché considerava la musica romantica troppo emozionale, troppo vicina a ciò che Nietzsche definiva il dionisiaco. La tragedia risalta dalla tensione fra l’apollineo e il dionisiaco, che devono stare in equilibrio. 

In conclusione, ripeto, il lavoro del poeta si fa tra l’incudine e il martello, con la stessa materia di cui sono fatti i sogni, come dice Prospero nella Tempesta

La poesia, l’arte, ci pone di fronte all’Altro e arresta quel processo di volontà individuale, che è un’affermazione della volontà di potenza, come la chiama Nietzsche.