LA PAURA INDICA LA DIREZIONE
La nostra epoca è sostanzialista. Ciascun elemento della vita, le difficoltà della giornata, le conversazioni con i colleghi, con i familiari, con gli amici, viene preso in modo sostanziale, ovverosia realistico, come se stesse fuori dalla parola. L’arte della parola, la qualità della conversazione, la vivacità linguistica sono divenuti valori desueti. Ogni cosa viene immaginata e affrontata come se partecipasse a un sistema. Così, anche il disagio, il sogno, i lapsus, le sbadataggini, ciò che sfugge alla linea, al cerchio, a un’idea standard della vita viene forzatamente rimesso dentro al sistema e affrontato militarmente, come se dovesse rientrare in un funzionamento ideale. Ma questo modo di purificare le sfumature della vita, quel che non va, quel che non torna alimenta la paura e le sue rappresentazioni.
La cifrematica, che dà alla psicanalisi uno statuto intellettuale — sgomberando il campo da qualsiasi compromesso con la psicoterapia o con le terapie mediche —, considera il disagio nella parola, negando che sia una faccenda psicologica o psicofarmacologica, e considera la paura come sentinella dell’inconscio. Con la paura è impossibile convivere. Non è condivisibile, non è oggettiva, non è uguale per tutti, offre la chance di un rilancio, d’inaugurare qualcosa di nuovo. La paura, per ciascuno, indica la direzione.
La mentalità di una soluzione, di un rimedio per ogni cosa rende sorda e paralizza la società. Dopo anni di propaganda per lo psicofarmaco, anche i principali promotori della mitologia della depressione e della psicofarmacologia cominciano a dubitare. Eppure, Gary Greenberg, che in Storia segreta del male oscuro denuncia l’abuso dello psicofarmaco che ha prodotto una società totalmente medicalizzata, scrive che la depressione è una “malattia culturalmente trasmissibile”, per cui il contagio non avviene tramite qualche microbo o gene, ma attraverso un’idea. Dunque, conferma l’apparato ideologico che considera la depressione una malattia. Freud aveva sottolineato che l’angoscia e il disagio costituiscono un’obiezione alla via facile, alla sostanza, alla vita ideale, all’idea che ognuno ha di sé e dell’Altro. Ciascuno è convocato a una vita altra, ma occorre procedere dall’analisi (da ana-lysis, senza soluzione) perché la medicalizzazione della società è terribilmente radicata nelle istituzioni, nelle aziende, negli uffici e nelle scuole. Ciò implica che il disagio viene preso realisticamente e considerato una patologia. Questa è l’anticamera del terrore e del panico. L’intellettualità non è un orpello, non è un passatempo per chi va in pensione, per chi non ha niente da fare, per chi si ritiene prossimo al traguardo della vita. L’intellettualità è indispensabile per la battaglia, per la giornata, perché essa sola consente di non drammatizzare dinanzi a ciò che non va, a un interlocutore problematico o a una circostanza sfavorevole. Rispondere alle circostanze della vita con il soggettivismo è assurdo. Ciascun elemento è intellettuale, indispensabile per l’analisi e per la lettura dell’epoca. Occorre che ciascuno parli ai nipoti che ancora non ha per raccontare loro l’epoca e lasciare una testimonianza. Affrontando la giornata con intellettualità non drammatizziamo e non ci sentiamo vittime. Anche farsi vittima è una via facile e alimenta la paura, e con la paura si conferma la vittima, e così via. L’obbligo della festa, del festivo, implica sempre il capro espiatorio. Nell’antichità era un agnello sull’ara o una giovane fanciulla, oggi è il giovane strafatto sul divanetto di una discoteca. Ciascun weekend abbiamo il bollettino delle vittime. Ma le vittime non sono solo quelle. Vittima è già chi dice: “Non vedo l’ora che venga il weekend, che venga la vacanza, che finisca il lavoro, non vedo l’ora di andarmene, di cambiare impiego, città, uomo, donna o famiglia”. Chi pensa a un riscatto, sociale o emotivo, è già vittima della paura della paura. Quindi non della paura originaria, indispensabile per il rilancio, per il valore, per il viaggio, ma della paura che ognuno si coltiva. La paura viene comunemente giustificata con la fragilità. Che gli umani siano fragili è un’idea romantica. La fragilità è l’altra faccia dell’idea di padronanza, è la prerogativa del convitato di pietra che deve trattenere, irrigidire, avere tutto sotto controllo in un funzionamento perfetto. Allora incomincia ad avere timore della fragilità. L’idea di rottura avanza e ogni pretesto è valido: la rottura di un meccanismo, qualcosa che non va, una leggera variazione negli esami del sangue. La paura che s’inceppi il funzionamento perfetto è un’idea del tempo, che sfocia nel terrore. Così accade che dopo una malattia rimanga il terrore del male.
Non è prendendo la vita a morsi come se fosse da consumare che ci garantiamo la riuscita, ma constatando che la vita stessa procede secondo l’inconscio. Attenendosi a questo fluire della parola e delle cose abbiamo davvero modo di scommettere. Da qui viene la forza: non dal prendere posizione con o contro qualcuno, non dalla rigidità, ma da questo fluire, senza cui le cose della giornata sono bruciate o sospese e trascurate, come se valessero, da sole, in quanto tali. Invece, le cose sono importanti perché si inscrivono in un progetto e in un programma facendo della vita un viaggio.