CHI HA PAURA DELLA TRASFORMAZIONE?

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psicanalista, direttore dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

La cifrematica offre gli strumenti per indagare in quale stadio si trova il viaggio della vita e per constatare che ciascuna giornata è improntata alla costruzione, in direzione della qualità, se non c’è la preoccupazione per i principali spauracchi dell’umanità: la morte e la prigione. Facendo cose che si scrivono, avvalendosi della costruzione, non c’è più paura della morte e della prigione. Chi ha paura della fine, invece, si limita, fa cose accettate e accettabili, di cui non resta nulla, in omaggio alla comunità conformista.
Nell’approccio che converte il rischio in pericolo, non c’è l’avvenire, è tolto l’infinito. Che ne è della poesia, dell’arte, dell’invenzione, della ricerca e dell’impresa intellettuale in questo approccio? Sono escluse, come nella città ideale che Platone descrive nella Repubblica, dove i poeti e gli artisti, così come le donne, sono temuti per le trasformazioni che possono provocare e quindi ritenuti non adatti al governo della città, che è riservato ai filosofi, considerati capaci di esercitare la massima padronanza su tutto ciò che tenta di ribellarsi alla ragione.
Ma di quale ragione si tratta nella padronanza dei filosofi? È la ragione universale, la logica comune, che propone l’identità e teme la contraddizione, la differenza e la varietà, teme l’inconscio come logica particolare della parola. Teme la parola libera, leggera, arbitraria. Il conformismo si oppone alla parola libera e promuove l’omertà, sostenendo che ci sono cose che non devono dirsi e che, solo così, gli umani possono essere governati e governabili. Queste idee sono radicate nel luogo comune perché i testi di Platone e di Aristotele sono applicati senza l’analisi e la lettura.
La credenza nell’innatismo, nella predisposizione naturale, per esempio, che divide gli umani in chi comanda e chi ubbidisce, è una derivazione del sillogismo aristotelico, che nella Politica giustifica la schiavitù come un fatto naturale. E, quante volte, per paura d’intraprendere una strada, che sembrerebbe non confacente alla propria presunta natura, molti giovani rinunciano al progetto e al programma di vita, all’arte e all’invenzione, non instaurano dispositivi per valorizzare i propri talenti nell’impresa e si sprecano alla ricerca della sistemazione, del cosiddetto posto sicuro?
Ancora nella Politica, Aristotele, rispetto a chi non accetta il ricatto dell’onorata società e compie il proprio viaggio senza paura di essere escluso, scrive: “Chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città, ma una belva o un dio”. La paura di chi non ha paura rappresenta l’Altro come animale fantastico: la belva o il dio fuori dalla città. Ma non è fuori dalla città, è fuori dalla comunità conformista.
La paura di non avere paura crea il pregiudizio che attribuisce il male all’Altro, all’artista, allo straniero, al poeta, ai giovani, alle donne. Attribuisce il male a chi non accetta di conformarsi ai criteri di accettabilità e rispettabilità della società dove nulla deve accadere che non sia subito assimilato, digerito, metabolizzato ai fini del consenso, del buon senso e del senso comune. Così interviene la persecuzione nei confronti di coloro che hanno dato impulso alla trasformazione. Non a caso, il movimento cifrematico, fin dal suo sorgere in differenti città del pianeta, accoglie la dissidenza in vari ambiti: nell’impresa, nella medicina, nella politica, nella scienza e nell’arte.
Se ciascuno coglie le istanze che vengono poste dalla cifrematica, ha la chance di vivere senza paura, di vivere secondo la logica particolare, e d’inventare, di fare, di scrivere, senza temere il pregiudizio che assegna la colpa e la pena a chi esce dal solco e non teme la novità e la trasformazione, a chi non ha paura della paura di rimanere solo.
La paura di rimanere soli, di essere abbandonati, deriva proprio dalla paura della trasformazione. Armando Verdiglione definisce il transfert come abbandono. Spesso, la paura della psicanalisi è paura del transfert, inteso come influenza intersoggettiva, plagio, contagio, contaminazione. Ma il transfert è l’itinerario, il viaggio che ciascuno compie facendo cose straordinarie e impensabili, seguendo la suggestione, la persuasione e l’influenza della parola, non di un soggetto. Il transfert allora è abbandono, ma delle abitudini, dei pregiudizi, della presunzione di padroneggiare la vita e la parola. Allora, per ciascuno incomincia un altro tempo se contribuisce alla trasformazione in atto e si adopera per costruire la città del tempo, dell’avvenimento e dell’evento.
Nella città del tempo le cose si fanno secondo l’occorrenza, non consentono la scelta. Le cose si fanno, e non si tratta di stabilire cosa fare, ma come fare, instaurando dispositivi non conformisti per fare ciascuna cosa. La ricerca di comodità e di facilità elude la pulsione e, come diceva Machiavelli, la via facile è la rovina. La domanda non cerca la via facile, esige l’instaurazione dell’analisi, perché è domanda di qualità. E la difficoltà è di parola, difficoltà di parlare senza stereotipi, lasciando che la parola agisca e che rilasci effetti inediti, anziché presumere di sapere già. Il massimo pregiudizio è quello di sapere già: “Non parlo perché so già cosa mi dirà”. Il pregiudizio si esprime anche dichiarando la presunta conoscenza dei limiti e dell’inadeguatezza propri e dell’Altro. Occorre invece vivere senza paura, costruire la città del tempo, dove ciascuno interviene come statuto intellettuale, non in quanto appartenente a una categoria sociale o professionale, sottoposta ai criteri di accettabilità e rispettabilità, non per ciò che è presunto avere o essere, ma per ciò che fa di ciò che racconta, tra sogno e dimenticanza.