LA SCIENZA A VANTAGGIO DELL'AMBIENTE

Qualifiche dell'autore: 
assessore al Comune di Bologna, docente di Dottrina dello Stato

Fin dalle origini dei tempi, la filosofia discute se la realtà è ferma o si muove, se l’essere è o tutto diviene, cioè se debba essere prevalente una visione statica del mondo, dell’universo, oppure se si debba considerare il mondo come un grande sistema dinamico. L’interrogativo, applicato alla vita degli uomini, cioè alla categoria dell’etica, immediatamente diventa se la vita saggia non sia quella di chi se ne sta immobile, a meditare su se stesso: “Non andare fuori, stai dentro di te” era la direzione indicata da Sant’Agostino.
Ho rivisto di recente al cinema il film Simon Mago, di Buñuel, in cui uno stilista vive per quarant’anni in cima a una colonna: è la negazione totale della mobilità, è la spiritualità intesa come contemplazione e inerzia. Al contrario, l’altro modello che abbiamo sempre visto è “l’uom di multiforme ingegno che molto errò”. Da Ulisse in poi, il viaggiare è sinonimo dell’essenza stessa della conoscenza umana, quindi la categoria morale più importante dal punto di vista dell’esistenza. Il tema del viaggio non è affatto marginale, perché investe i modi d’intendere la vita e l’essenza stessa dell’uomo.
In un ufficio del Ministero della Difesa dove visse il gerarca fascista Italo Balbo, ho letto sulle pareti alcune frasi celebri, tra cui le seguenti, che sono l’antitesi l’una dell’altra e riflettono le tesi di cui stiamo parlando. “Chi vola vale, chi vale non vola, chi vale e non vola è un vile”, dice una di esse. Singolare, una sorta di futurismo etico dannunziano. Alla parete opposta, ho sbirciato l’altra, in latino: “Caelum non animum mutant qui trans mare currunt”, quelli che corrono di qua e di là dal mare cambiano il cielo, l’ambiente, ma non l’animo. In altri termini, a nulla serve affannarsi per viaggiare tanto. È esattamente la smentita del “Chi vale vola”.
Se poi prendiamo la chiave storiografica in senso stretto, gli storici del lungo periodo sostengono che in origine, quando l’uomo non era più un ominide, gli uomini viaggiavano, pur non avendo tecnologie. Non essendo legati alla coltivazione agricola, incapaci di trarre frutto dalla terra per sopravvivere, dovevano continuamente spostarsi. Poi, arrivò una grande fase stanziale, legata all’invenzione dell’agricoltura, quindi alla capacità di produrre reddito sempre dallo stesso terreno e, quindi, alla necessità di consolidare la propria permanenza all’interno del territorio. Dalla cultura agricola nacque anche la cultura urbana, cioè della città come insediamento delle funzioni abitative legate al territorio. Sono venute, poi, fasi di nuova mobilità, che si sono alternate storicamente. Con la rivoluzione industriale e con l’età delle ferrovie, che ha segnato tutto l’Ottocento, si è sviluppata l’idea che ci si possa muovere. Pensate come rimase stupito il mondo quando, nel 1870, dopo la conquista di Parigi da parte dell’esercito prussiano, Leone Gambetta riuscì a fuggire a bordo di un pallone aerostatico: dev’essere stata una scena meravigliosa, che aveva dell’incredibile. Poi, è arrivato il turismo di massa. L’idea stessa di muoversi per ragioni turistiche era assolutamente sconosciuta a tutte le epoche passate, il turismo in quanto tale, il muoversi per diletto, per vincere lo stress, per trovare un luogo in cui passare sette giorni di relax, è un fenomeno assolutamente recente, non ha confronti in tutta la storia di altre epoche e di altre culture. Peraltro, è anche intimamente contraddittorio, come ben sanno coloro che vanno a Rimini d’estate: si pensa di riposarsi, ma poi l’incolonnamento sulle autostrade delude ogni aspettativa.
Sta di fatto che il fenomeno, pur criticato dagli intellettuali, cresce a dismisura e acquista dimensioni gigantesche. I futurologi cominciano a dire che seguirà una fase in cui ci fermeremo, perché dal computer di casa potremo fare tutto, sapere tutto, conoscere tutto, essere collegati con tutto il mondo, lavorare, addirittura avere un reddito. Quindi, verranno meno le ragioni della mobilità. Analisi sociologiche per ora smentite dai fatti, in quanto la mobilità è comunque in aumento.
Muoversi è un diritto naturale, è una delle aspirazioni fondamentali, anche se poi chiunque è liberissimo, a una certa fase della vita, di ritirarsi in cima a una colonna. Il muoversi è una delle condizioni fondamentali dell’esistenza che amplia le sfere della libertà individuale. Non c’è fenomeno di mobilità che non sia legato ad ampliamenti degli spazi di libertà. I contadini medievali, che fuggono dal feudo e vengono al libero comune di Bologna, vengono perché l’aria della città rende liberi. Quindi, il movimento, il traffico, il viaggio e l’incontro sono sinonimi di libertà.
Non si deve dare troppo credito, a meno che non si sia fortemente mistici, alla tesi stanziale. L’uomo ha il diritto di viaggiare, conoscere, scoprire; tutto ciò è umanità, è capacità di dialogo. Il viaggio è lo strumento con il quale noi scopriamo e modifichiamo il mondo. E il bello del libro di Aurelio Misiti, Il viaggio dell’avvenire, è proprio nell’idea che il futuro non possa essere segnato da generiche idee confuse in cui l’uomo rinuncerebbe a questa straordinaria conquista. Non se ne può più di filosofi veri o presunti che, da qualche secolo, demonizzano la scienza e la tecnica come se fossero i grandi mostri del presente. Questa tesi, diciamo pure di origine francofortese, secondo cui la scienza e la tecnica sarebbero gli strumenti che hanno sostituito l’essere metafisico tanto da condannare all’assoluta impotenza, non è condivisibile; anche una certa cultura ecologista, ambientalista, romantica, di rifiuto, è un po’ un sottoprodotto che si aggancia a questo. Certamente, esiste un problema d’impatto ambientale, di difesa dell’ambiente, ma è del tutto reazionaria la tesi secondo cui, per difendere l’ambiente, dobbiamo tornare indietro, andare controcorrente. Questo è il sottofondo ideologico di certe forme teoriche di difesa dell’ambiente. Non è pensabile che ogni intervento dell’uomo sia devastazione. Nella valutazione dell’impatto ambientale di un intervento antropico su un contesto, si deve considerare che può produrre un miglioramento delle stesse condizioni ambientali. Non si deve misurare solo il grado di danno di un’opera pubblica sull’ambiente. Questa è sottocultura.
Da quando gli Egiziani costruivano dighe sul Nilo, l’intervento antropico sull’ambiente è stato finalizzato a ottenere miglioramenti ambientali. Chi l’ha detto che la natura sia il beato terreno dell’Eden dove tutto cresce ordinato, dove tutto porta vantaggio all’uomo, il quale, invece, interviene a devastare? Questa è una tesi culturalmente ridicola e infantile.
Pieno appoggio, dunque, alla tesi culturale del diritto di viaggiare, come sintesi di tutte le libertà e le aspirazioni dell’uomo, e allo sviluppo della scienza e della tecnica, come gli strumenti che possono consentirci di ottenere risultati straordinari. Non si tratta di esaltare le tesi progressiste. Può anche accadere una catastrofe, ma non sarà figlia diretta della scienza e della tecnica. Il processo va controllato, guidato, l’uomo deve spendersi nei suoi valori, nella sua intelligenza, in tutto il percorso. Pensare di tornare indietro è paura del futuro, è un ripiego, proprio come avveniva nel Seicento, nell’Arcadia, quando i nobili, non sapendo come passare il tempo, si vestivano da pecore e belavano, imitando i pastori. Di questo tipo di cultura oggi non abbiamo bisogno.