CHI HA UN PROGETTO E UN SOGNO NON TEME CRISI
Che cos’è un progetto? Un progetto è un insieme di attività coordinate, eseguite allo scopo di raggiungere un obiettivo unico, non ricorrente. Inoltre, le risorse a disposizione per la realizzazione del progetto sono ben definite e quindi, per definizione, limitate. Un progetto poi ha un inizio e una fine.
Nella nostra realtà imprenditoriale, fatta per la gran parte di piccole e medie aziende, l’azienda stessa è un progetto: il progetto dell’imprenditore. Ma un progetto, abbiamo detto, serve per raggiungere un obiettivo, uno scopo: qual è lo scopo dell’imprenditore? Perché nasce quell’impresa, perché l’imprenditore vi si dedica, da cosa trae origine lo spunto iniziale? Alla base c’è il sogno e il tentativo, che si fa progetto, di realizzarlo. Il sogno è diverso da persona a persona. Limitato pensare che lo scopo finale dell’imprenditore sia unicamente il denaro, l’accumulo di capitale finanziario; questo può essere un mezzo, non il fine. Il bisogno da soddisfare, il sogno, è certamente altro. Non dichiarato, imperscrutabile, nascosto nell’animo dell’imprenditore.
L’impresa può nascere per ricerca d’indipendenza, per passione creativa, per un’intuizione da sviluppare, per un’esigenza di autoaffermazione, di protagonismo, per dimostrare qualcosa agli altri o a se stessi, per uno o più di questi motivi o per altri: in ogni caso, pur di avere la possibilità di realizzare il proprio sogno, si è disposti ad accettare il rischio di perdere anche ciò che si possiede.
Poi l’impresa si fa azienda e diviene un dispositivo che genera valore, in parte tangibile, desumibile dai dati di bilancio, in parte intangibile e valutabile in termini di addensamento e implementazione di competenze, qualità della vita dei lavoratori, creazione di opportunità per le persone, rapporti con gli stakeholders, politiche di responsabilità sociale.
Ma un progetto ha un inizio e una fine e quindi anche l’impresa (dell’imprenditore) ha una fine?
Dipende da cosa muove l’imprenditore, da quale era lo spunto originario e se questo ha ancora ragione di essere alimentato.
Se il sogno, l’obiettivo, era ottenere un certo “status”, raggiunto questo, la spinta può anche venire meno. La fatica prende il sopravvento sulla marginalità di ogni nuovo incremento di capitale, tangibile e intangibile; anzi, in periodi recessivi, appunto di crisi, il timore di perdere in poco tempo quanto accumulato in anni di sacrifici e di rischio d’impresa prevale sul desiderio di sviluppare l’azienda, di continuare a investire, di rischiare, di cercare nuovi oceani nei quali navigare. Il sogno non c’è più, il progetto è terminato. Allora s’inizia a progettare la cessione dell’azienda: che l’azienda passi a chi ne vede lo strumento per poter realizzare il suo sogno, il suo progetto o, come più spesso accade, alla grande impresa, alla multinazionale che ne fa un tassello del suo puzzle strategico organizzativo. Ma se il sogno dell’imprenditore viene alimentato dai risultati che riesce a ottenere, se il raggiungimento di un obiettivo è solo il presupposto per un nuovo obiettivo più ambizioso, se il progetto personale continua ad alimentare il piano industriale della sua azienda e da questo viene alimentato, allora la crisi viene vissuta come elemento naturale, è messa in conto, si sa che prima o poi arriverà e allora si cerca di prevederla, di tenere pronti gli strumenti per fronteggiarla.
Tuttavia, nell’epoca della globalizzazione, il potere di governo del piccolo imprenditore è modesto, le dimensioni dell’azienda diventano cruciali nella competizione globale e le nostre piccole imprese avrebbero necessità di poter contare su un ambiente favorevole, sul tifo dei collaboratori, delle istituzioni, della gente, in breve, di poter, come recita il famoso slogan, “fare sistema”.
Abbiamo bisogno di coesione sociale, di sforzi congiunti e risultati condivisi, di politiche coraggiose ma solidali. Nella crisi non si può sopportare il costo degli sprechi strutturali, di ciò che non solo è inutile ma genera costi per mantenere la sua inutilità: nella crisi lo spreco porta al fallimento.
Chi ha un progetto non teme la crisi, teme la mancanza di cultura d’impresa e più in generale di cultura; teme l’insipienza, l’arroganza di una classe politica autoreferenziale, che si autoelegge e che ha fatto, in larga parte del paese, dell’assistenzialismo la base del consenso che serve a perpetuarne riti e privilegi. Francamente, non se ne può più. Tanto da chiedersi se non valga la pena tentare di realizzare il progetto dall’altra parte del mondo. Dietro la delocalizzazione delle unità produttive non si cela anche la sfiducia verso il sistema politico? È meglio investire in Italia o in altri paesi? La seconda parte del XIX secolo e la prima del XX secolo sono state caratterizzate da imponenti emigrazioni di italiani verso tutti i paesi del mondo. Il XXI secolo pare iniziato all’insegna dell’emigrazione delle imprese. E dopo cosa resterà?
Questo, e non la crisi, teme chi ha un sogno e un progetto.