LA MIA AVVENTURA IN ASIA
Sono sempre stato attratto dall’Asia, penso di essere stato tra i primi italiani a puntare sul mercato asiatico: ho aperto il primo negozio monomarca a Hong Kong nel 1983, quando in Cina per attraversare la frontiera s’impiegavano otto ore e i controlli si facevano con i mitra puntati. A distanza di trent’anni, non posso dire di avere conosciuto a fondo la cultura millenaria di quei popoli, come invece era riuscito a fare Alessandro Valignano, stando a quanto scrive di lui Vittorio Volpi nel libro Il Visitatore (Spirali).
La mia avventura orientale era incominciata poco prima in Giappone, quando ancora proponevo apparecchiature oleodinamiche, caldaie, bruciatori e sistemi di riscaldamento innovativi rispetto a quelli di loro produzione e utilizzo. Le aziende italiane presenti alle fiere allora erano dieci o venti al massimo e non c’era un giapponese che parlasse inglese, quindi le difficoltà di comunicazione erano veramente tante.
Lo stesso possiamo dire per le fiere di Pechino e Shangai. All’inizio tornavo in Italia credendo di avere ottenuto molti risultati, perché i giapponesi dicevano sempre sì. Poi capii che il loro assenso non era indirizzato all’acquisto.
Qualche anno dopo, quando incominciai a esportare i miei accessori moda, poiché il nome Lamborghini era molto famoso in Giappone, trovai tante porte aperte. Ottenni subito un appuntamento con il direttore generale di una grande compagnia di distribuzione che era almeno dieci volte più importante di un’equivalente italiana. Accompagnato da un buyer, presi una camera in un albergo molto prestigioso di Tokio per ricevere il grande direttore e mostrare l’eccellenza italiana. Mi fece attendere due ore e la cosa m’infastidì al punto che, quando arrivò, facendomi diversi inchini, io – che ero andato in Giappone con la vanità di chi sente d’impersonare un mito, anziché con l’umiltà di Valignano – puntai il dito sull’orologio per fargli notare il ritardo. Imparai solo molto tempo dopo che questa è la regola e, quanto più si è tra pari, tanto più l’uno fa aspettare l’altro.
Ma veniamo alle mie esperienze in Cina. A Hong Kong fu tutto abbastanza semplice fin dall’inizio: arrivai portando i miei prodotti e cercando di fare joint venture. Il cinese di Hong Kong – all’epoca non si poteva entrare in Cina – era abbastanza furbo, pronto a cogliere le occasioni propizie e a studiare le cose a tavolino, ma eravamo consapevoli che il rapporto tra il buon affare e la fregatura era di uno a sei, uno a sette; però gli affari si facevano in fretta, le cose andarono subito molto bene e ottenni successo immediatamente, aprendo negozi e fabbriche nel Sud del paese. Solo nel settore industriale trovai qualche difficoltà, quando provai ad aprire stabilimenti per la produzione di bruciatori. Nel periodo del regime si perdeva molto tempo nelle lungaggini burocratiche e si spendevano molti soldi per fare i regali che occorreva fare. Sembravano operazioni già concluse, salvo che all’ultimo momento arrivava un tale malconcio, con la barba lunga, e buttava per aria un progetto su cui avevamo lavorato un anno e mezzo. Forse oggi non è cambiato molto in questo senso, ma lavorare in Cina non è difficile se si propongono qualità, prodotti innovativi e articoli di cui i cinesi hanno bisogno. Se invece la nostra proposta è banale e scontata, non si ottiene niente perché per certi aspetti sono più bravi di noi: hanno una cultura millenaria più antica della nostra, anche se soffocata da decenni di regime, e in più noi abbiamo insegnato loro tutto, dall’A alla Z. Spero che in futuro eviteremo l’errore di portare loro la nostra tecnologia nella sua globalità e gliela daremo un po’ per volta, anche perché difficilmente rispettano i limiti territoriali della produzione come spesso s’impegnano a fare.
A questo proposito voglio spendere una parola sulla giurisprudenza commerciale, che fino a dieci anni fa era fatta di pochi articoli di legge interpretati scopiazzando il metodo inglese. Se un contratto non veniva rispettato, l’interpretazione di questi pochi articoli era sempre a favore del cinese e mai dell’italiano.
Se parlate con un ambasciatore, un console o un presidente della Camera di Commercio, vi dicono che le cose sono cambiate e bisogna essere ottimisti.
In realtà ci sono ancora problemi non indifferenti, quindi è meglio verificare un contratto in tutti i singoli dettagli e non trascurare nulla. Io comunque vado molto volentieri in Cina, dove ho un business notevole – il marchio Tonino Lamborghini è molto apprezzato in tutto l’Oriente (con dodici flagship store tra Hong Kong e Macau e centoventi shop-in-shop nelle principali città cinesi) –, anche se la battaglia per contrastare la contraffazione dei miei articoli è costante.