SHANGAI, IVREA, CINA, ITALIA E DINTORNI. BREVE VIAGGIO NEL MONDO DEL LAVORO E DELLA CULTURA D'IMPRESA
Di ritorno da un viaggio a Shanghai, mi sono ritrovato a riflettere su due esperienze nell’arco di quindici giorni, apparentemente scollegate tra loro: da una parte il viaggio a Shanghai – una zona molto particolare della Cina, al punto da essere a volte etichettata come “non-Cina” –, dall’altra la visita, un paio di giorni prima della partenza, agli storici stabilimenti della Olivetti di Ivrea dove, grazie alla preziosa guida del filosofo Alberto Peretti, abbiamo rivissuto l’esperienza imprenditoriale di Adriano Olivetti, constatando l’attualità (o la visione futurista?), del pensiero di un imprenditore che, negli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, aveva saputo magistralmente coniugare la ricerca del profitto con il rispetto e la valorizzazione dell’uomo, legando questi due aspetti in modo talmente intimo da ricavarne una potente sinergia: l’uomo rispettato e valorizzato restituiva questo valore all’azienda in termini di impegno, orgoglio e senso di appartenenza, che si traducevano in qualità del prodotto e quindi marginalità delle vendite e quindi profitto. Un circolo virtuoso ancor oggi molto difficile da riscontrare.
Coinvolgo quindi il lettore in una riflessione che riguarda lo sviluppo economico, le condizioni nelle quali il lavoratore presta la sua opera e il fine del profitto dell’impresa, ovvero nella domanda: che ce ne facciamo dei profitti?
Partiamo da Shanghai e dintorni. Viaggiando da quelle parti e visitando aziende della zona, si ha subito la percezione di grandi contrasti. Carretti a pedali e automobili di gran lusso, vere supercar, per esempio, condividono la stessa strada, e lo stesso traffico. Questo vale anche per le condizioni di lavoro: si possono trovare fabbriche in cui le condizioni ambientali e l’organizzazione del lavoro sono caratterizzate da una grande arretratezza, soprattutto nelle condizioni delle maestranze; ma non mancano fabbriche moderne, con capannoni climatizzati e pulitissimi, dotati di centri di lavoro moderni, spesso al top della tecnologia del settore.
Abbiamo detto di grandi contrasti, ovvero, grandi differenze: il carretto e la supercar, il grattacielo avveniristico di fianco al condominio popolare, l’azienda a forte prevalenza di mano d’opera e quella a larga prevalenza di capitale investito.
Ma la differenza, il contrasto, sono il risultato dello sviluppo e ne costituiscono anche il carburante. Eppure, ricordate la Cina dei decenni passati, prima delle “aperture” di Deng? Tutti uguali, tutti vestiti nello stesso modo, tutti poveri in canna e senza prospettive. I grandi contrasti penso che siano inevitabili quando si persegue la via dello sviluppo e, più questo sarà rapido, maggiori saranno i contrasti: da qui anche la necessità di regolare lo sviluppo. Certamente temi interessanti sono “quale sviluppo” e quindi “quali politiche”, economiche, fiscali, sociali, mettere in atto per favorire lo sviluppo anche delle classi sociali più svantaggiate. Quale tipo d’imprenditoria favorire, quale tipo di cultura d’impresa “propagandare”. Ecco allora il riferimento al modello olivettiano che ha dimostrato, già settant’anni fa, come profitto, sviluppo, attenzione per l’uomo e per l’ambiente e attenzione alla coesione sociale non siano per nulla fattori in contrasto tra loro, anzi, possono essere convenientemente governati per innescare un circolo virtuoso di creazione e distribuzione di valore tangibile e intangibile e che, in definitiva, per l’impresa “il profitto è un mezzo e non il fine”.
Magari, da una nazione “comunista” (?), che solo pochi decenni fa ha iniziato la sua crescita economica, potevamo aspettarci che privilegiasse un modello che veda il profitto non come fine ma come mezzo per un armonico sviluppo sociale, senza rinunciare alla meritocrazia e alle differenze che questa genera e che, come detto, costituiscono carburante per lo sviluppo in quanto determinano aspettative, propensione al miglioramento della propria posizione, possibilità di coltivare sogni. E quindi eccoci pronti a criticare il modello di sviluppo, rapido, un po’ caotico e generatore di contrasti sociali che sta vivendo la Cina. È bello avere la possibilità di criticare, ma magari un’occhiatina e maggiore attenzione a quanto facciamo in casa nostra non guasterebbe.
A tal proposito, al dibattito L’Italia, la Cina, il Giappone: dal progetto di Valignano alle nuove opportunità di business (Museo Lamborghini, 19 maggio 2011), è emerso come “alla base della cultura in Cina e in Giappone ci siano l’ordine e la forma, secondo una tradizione in cui il collettivo ha la priorità sull’individuo; la loro è la società della vergogna, in cui l’individuo deve vergognarsi dei propri sentimenti e delle proprie emozioni”.
La società della vergogna? E la nostra cos’è diventata, se non la cultura della mancanza di ogni vergogna? Nella cultura cinese l’individuo è nulla nel confronto della collettività? Ma la nostra cultura cosa esprime? Il contrario. Attualmente, la nostra non è forse la cultura del grande egoismo, della mancanza di solidarietà, dell’individualismo più sfrenato? E allora? Certo, ben venga grande attenzione al rispetto dei diritti dell’uomo negli altri paesi (ma anche nei nostri!), ma attenzione anche alla nostra cultura e al modo nel quale si evolve.
Attenzione quindi ai giudizi trancianti sulla “cultura degli altri”, sul loro modo di “fare impresa”, sull’applicazione dei diritti umani (argomento molto serio). Attenzione che non vuol dire chiudere gli occhi ma guardare agli altri, alla loro “cultura”, con umiltà e rispetto, senza sentirsi portatori di una cultura superiore che merita di essere esportata. Esportare la nostra cultura? Quale? Nel nostro paese ne convivono più di una e quella che va per la maggiore assomiglia molto a un’auto di terza mano: prima di venderla, ma soprattutto di acquistarla, necessita di una bella revisione!