UNA SENTINELLA DELL'INCONSCIO

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psicanalista, presidente dell’Associazione “La cifra” di Pordenone

L’idea che la paura sia comune a tutti consola gli umani e li illude di essere uguali e senza responsabilità. E li giustifica nell’invocazione di un rimedio al disagio, anch’esso uguale per tutti, che sia lo psicofarmaco o il rimedio domestico: la sigaretta, il bicchiere, l’eccesso nell’alimentazione. Secondo questo pregiudizio, chi non sta sotto l’egida della paura ordinaria bara o ha qualcosa da nascondere. La psicanalisi e la cifrematica propongono un’analisi e un’elaborazione rivoluzionaria della paura, invitando a considerarla come una sentinella dell’inconscio, non rappresentabile nella formula “ho paura di”. La paura originaria indica che qualcosa incomincia e aumenta nella nostra vita e non si lascia addomesticare con un rimedio facile. Anzi, l’idea della soluzione alimenta la paura fino all’angoscia e poi al terrore e al panico. Il rimedio è inutile se la paura è sentinella dell’inconscio e indica lo scacco della padronanza sulla parola e sulla vita. La paura come angoscia, o angustia, è la sensazione di una costrizione, di una strettoia che instaura la particolarità per ciascuno.
Oggi è consuetudine attribuire l’angoscia a un eccesso di responsabilità e questo è un errore, perché è proprio con la responsabilità che quello che viene avvertito come stato d’ansia si dissipa. L’angoscia è un antidoto alla sopravvivenza ed è indispensabile per non rimandare, per non rinunciare, per non abbandonarsi.
La paura originaria sottolinea l’aumento nella parola – è questa l’auctoritas, da augeo, aumento – mentre la reazione all’aumento porta alla rappresentazione sintomatica che chiamiamo ansia, la paura coltivata che, non elaborata, conduce fino al terrore e al panico. Chi propone di sedare l’angoscia propone l’omertà. L’assurdo è questo: l’omertà alimenta la paura, e alla paura si risponde con l’omertà.
Tutte le volte che il nostro intervento risponde a una fantasia di difesa, di giustificazione, di prevenzione, di rivendicazione o di delega, sia nel lavoro sia nella famiglia, stiamo abdicando all’autorità, negando il rilancio che essa comporta e mettendo le basi per un appesantimento del nostro compito. La nostra epoca non è educata all’auctoritas: l’infantilismo è dilagante. Infantilismo è rappresentare il soggetto con il proprio limite, con l’idea di sé, delle proprie mancanze e dei propri difetti. Oggi, alcuni imprenditori parlano esattamente come i loro dipendenti, non vedono l’ora che arrivi il weekend, si lamentano del lunedì, e ormai l’alternanza feriale e festivo è un luogo comune. Così si sopravvive: senza l’auctoritas, senza l’aumento, indeboliti dinanzi alle circostanze estreme della vita. L’infantilismo aumenta la paura nostra e dei nostri interlocutori. Chi cerca di essere impeccabile, puro, chi cerca una copertura o un nascondimento evita l’autorità e resta soggetto professionista dei sintomi: fobia, angoscia, panico, terrore, spavento. Invece l’auctoritas è l’instaurazione dell’autore, segna l’incominciamento del nostro romanzo, la narrazione della nostra vita. Senza autore noi sopravviviamo nel regno della paura e in balia dell’epoca.
Nel racconto di Kafka Dinanzi alla legge, l’uomo di campagna che aspetta per una vita di avere accesso alla legge, prima di morire, fa un’ultima domanda al guardiano: “Come mai in tutti questi anni nessun’altro ha chiesto di entrare?”. Il guardiano gli risponde: “Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te”. La legge della parola è inaccessibile, sottolinea la particolarità e non è uguale per tutti. La fantasia dell’accesso paralizza. La legge, come il godimento della parola, non è accessibile: il godimento presunto accessibile è mortifero, senza soddisfazione.
Rimanere indifferenti rispetto alla paura come sentinella, presumere di dovere controllarla, eliminarla o addomesticarla porta a non elaborare la paura e a perdere la direzione e preclude l’avvenire. Un conto è la paura originaria, indispensabile per la direzione, un altro è la paura ordinaria che ci unirebbe in un comune destino. Vivere secondo un sistema preventivo sospende l’immunità. La salute e la tranquillità esigono il ragionamento, non il fare per inclusione o per esclusione, per evitare il male o inseguire il bene. Il ragionamento esige il tempo, ed è sempre per ripararsi e difendersi dall’eventualità del tempo che sorge la fantasia di mettere le mani avanti e di difenderci.
Il terrore è il segnale che un’idea di padronanza circolare non tiene più, che l’utopia non tiene più. Invece, il panico indica che non dobbiamo alimentare la fantasia di riscatto dal feriale al festivo, da una parallela all’altra. Ogni atto liberatorio è una nuova manetta. Da un lato la fantasia di libero accesso e di riscatto, dall’altro il panico che immobilizza. Se invece consideriamo il disagio un segnale che instaura la particolarità, si avvia una narrazione e, lungo il racconto, c’è l’eventualità della qualificazione e la chance della valorizzazione.