IL CAIRO COME TEHERAN?

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scrittrice

All’epoca in cui sono nata, in Iran c’era la dittatura dello scià, ma la libertà privata era ammessa. Da adolescente potevo vestirmi come le ragazze europee, in jeans e t-shirt, ascoltare musica e vedere film occidentali, e nello stesso tempo innamorarmi delle poesie persiane. A quel tempo, le mie amiche e io al mare indossavamo il bikini e sulla spiaggia le ragazze e i ragazzi ballavano insieme. Nel 1978, al ritorno dalle vacanze, nel mio tranquillo quartiere residenziale trovai le cose molto cambiate: nelle strade i carri armati e i soldati accerchiavano la gente, milioni di persone, tante che non si vedeva l’asfalto.
In questi mesi si vedono in TV le folle nelle piazze del Cairo: ebbene, nel mio quartiere era così. Quando cinque anni fa parlavo in pubblico della rivoluzione iraniana del ‘79, molti non capivano perché ne parlassi, pensavano che fosse anacronistico, che non ci sarebbe mai stata un’altra rivoluzione; ora penso che abbiano cambiato idea. La rivoluzione iraniana ha portato una situazione, per certi versi, molto simile a quella che si sta verificando in questi mesi in Egitto e negli altri paesi del Nord Africa. Il popolo iraniano chiedeva democrazia e libertà, esattamente come stanno facendo il popolo egiziano, il tunisino e lo yemenita oggi. L’Ayatollah Khomeini, la guida della rivoluzione, aveva promesso libertà e democrazia e il popolo iraniano ne aveva talmente bisogno che gli diede fiducia. Durante la rivoluzione spararono alla gente che manifestava, massacrando tante persone; lo scià cambiò vari ministri nel frattempo, per cercare di mantenere il controllo, ma inutilmente. Quando l’esercito si schierò con il popolo, dovette lasciare il paese a Khomeini e nacque la Repubblica Islamica dell’Iran.
Tornando a scuola, per qualche mese abbiamo avuto ancora la libertà di leggere ciò che volevamo e di vestirci come ci piaceva, ma la situazione a poco a poco cambiò. Vorrei ricordare che i crimini contro l’umanità non si compiono in una notte: le dittature hanno bisogno di tempo per mostrare la loro faccia spaventosa. In Iran il pericolo si è rivelato sempre maggiore: prima la Repubblica Islamica ha chiuso alcuni giornali, poi ha vietato di leggere i libri in inglese, di ascoltare musica e di ballare, poi è venuto il turno dei jeans e un giorno ci hanno detto: “Domani venite a scuola con lo hijab”. Ero cresciuta in pantaloni e maglietta e ora mi ordinavano di coprirmi la testa con un velo. La maggior parte delle mie amiche, come me, volevano vestirsi liberamente, così abbiamo protestato per le vie di Teheran, chiedendo le libertà che ci avevano promesso. Nel 1980 tutte le manifestazioni sono state soppresse dai Guardiani della rivoluzione: inizialmente ci assalivano con i bastoni, poi hanno aggiunto i lacrimogeni e alla fine ci sparavano addosso con armi da fuoco. Nel periodo in cui partecipavo a queste manifestazioni avevamo più o meno quattordici anni e non avevamo ancora capito la pericolosità di quello che ci minacciava. Nel 1981 hanno cominciato ad arrestarci, sono venuti a casa mia e mi hanno portato al carcere di Evin, a nord di Teheran. Chi entra nel carcere viene bendato e interrogato. A tutte le domande che mi hanno fatto ho risposto onestamente: mi hanno chiesto se avessi partecipato alle manifestazioni e ho confermato, anche perché la mia partecipazione alle manifestazioni era risaputa e la direttrice della mia scuola, che faceva parte dei Guardiani della rivoluzione, era tenuta a indicare la lista di studenti attivi contro il governo, per cui nel carcere di Evin avevano già i nostri nomi e sapevano bene chi fossimo. Mi hanno chiesto se avessi scritto articoli contro la rivoluzione e ho confermato: scrivevo gli articoli la sera su cartoncini e la mattina li incollavo alle pareti della scuola. Gli studenti amavano i miei articoli, la direttrice no. Poi mi hanno chiesto l’indirizzo di una ragazza che non sapevo dove fosse o dove abitasse. Allora mi hanno trasferito in un’altra stanza e mi hanno tolto le bende. Nella stanza c’erano due uomini, il primo di nome Ali, l’altro Mohammed. Qualche mese fa in una conferenza a Oslo, un ragazzo giovane ha parlato prima di me e, raccontando di aver perso i suoi genitori in un carcere del suo paese, ha mostrato una fotografia delle stanze dove avvenivano le torture. Durante il mio intervento, ho poi spiegato che, a differenza di lui, io non ho foto del carcere perché mentre la dittatura nel suo paese è finita, oggi in Iran nello stesso carcere di cui racconto ci sono seimila prigionieri e non è permesso fotografare le stanze delle torture.
In quella stanza i due uomini hanno cercato di ammanettarmi, ma quando hanno visto che i miei polsi erano abbastanza magri da poter uscire, allora li hanno uniti entrambi all’interno di una singola manetta e quando l’hanno chiusa ho sentito il rumore delle mie ossa che si rompevano. E la tortura non era neanche cominciata. So che non è piacevole sentire queste cose, ma è il minimo che possiamo fare per le persone che stanno subendo la tortura in questo stesso istante: mi hanno legato a pancia in giù su un letto di legno, tolto le scarpe e i calzini e frustato le piante dei piedi. Questo è uno dei metodi più usati nelle carceri del Medio Oriente perché è molto efficace e il dolore che si prova è indescrivibile. Ti frustano fino a quando i piedi si gonfiano e la pelle si spacca, poi ti obbligano a camminare, di conseguenza il gonfiore diminuisce, e ti frustano di nuovo. È importante intendere che lo scopo della tortura non è quello di avere informazioni perché, anzi, sotto tortura tutti mentono. Se mi avessero chiesto di confessare che ero Gesù Cristo, avrei detto di sì; se mi avessero chiesto se fossi una spia della Cia, avrei confermato: avrei detto qualsiasi cosa, pur di salvarmi da quel dolore. Alla fine mi hanno condannato alla pena di morte e poi al carcere a vita.
Anche oggi, nel tribunale del carcere di Evin c’è un solo giudice che emette un verdetto ogni tre minuti e la maggior parte sono pene di morte: non a caso, quasi tutte le sere assistevamo a fucilazioni collettive. In un secondo momento, mi hanno trasferito in una piccola cella con altre sessanta ragazze.
Una studentessa della scuola che ho visitato qui a Pordenone mi ha chiesto dettagli sulla vita quotidiana in carcere: anche le piccole e più semplici cose della vita sembravano insperabili. Tranne qualche eccezione, avevamo tutte meno di diciotto anni; ci davano un pezzo di pane e un pezzo di formaggio al giorno da dividere tra tutte le compagne di cella e solo per distribuire equamente ciò che ci davano discutevamo per un’ora. Avere un solo bagno per trecento ragazze ci costringeva a essere sempre in fila per il proprio turno. La notte stavamo schiacciate le une alle altre, senza lo spazio utile per dormire. E vivevamo nella paura che in qualsiasi momento le guardie entrassero per portare via una di noi, per torturarla o fucilarla. C’era un particolare tipo di tortura di cui nessuno parlava: a turno, una ragazza veniva chiamata verso le 10 di sera e tornava alle 5 di mattina senza segni di tortura sul corpo. Quando le chiedevamo di raccontare cosa fosse successo, ci guardava con sguardo sfuggente di vergogna. Se sei frustata e hai i segni della tortura sul corpo le amiche ti rispettano per quello che hai subito, mentre ciò che succedeva in questo caso non era motivo d’orgoglio.
Un giorno venne il mio turno: il mio inquisitore mi chiamò e affermò che, data la mia condanna di stare in carcere a vita, il mondo mi aveva dimenticato a tal punto che non importava a nessuno se fossi viva o morta. Aggiunse che, se avessi accettato di sposarlo, la mia vita sarebbe migliorata. Gli risposi che non lo amavo e lui minacciò di arrestare i miei genitori. Accettai e, come mi ordinò, diventai musulmana e cambiai nome. Quando tornai in cella con le mie amiche non feci parola sulla cosa, provavo vergogna. Quest’uomo ogni settimana mi portava in visita a casa della sua famiglia: rimasi colpita dalla gentilezza dei genitori, che contrastava nettamente con la durezza di un figlio torturatore. Quando sua madre mi spiegò che suo figlio per tre anni era stato prigioniero e torturato nello stesso carcere dove lavorava, ho capito che se a un uomo, che un giorno è stato vittima, viene data una frusta per vendicarsi, la usa e diventa carnefice. Mi sono chiesta se potesse succedere anche a me, ma io so qual è la differenza fra vendetta e giustizia: la giustizia non passa per la camera delle torture.
Da quel giorno ho capito che non importa la religione o il nome delle persone, quello che importa è la scelta che si fa il giorno in cui ti viene data una frusta in mano. I due uomini che mi hanno torturato sono stati entrambi assassinati, ho perdonato tutti e due per ciò che mi hanno fatto perché è un mio diritto. Eppure, non ho il diritto di perdonarli per i crimini che hanno commesso verso altre persone e non perdonerò mai il sistema della Repubblica Islamica dell’Iran, che produce questi torturatori.
Dopo due anni e due mesi, sono stata liberata dal carcere di Evin, sono tornata dai miei genitori e la prima sera, cenando insieme, loro hanno preferito parlare d’altro. Sono stata due anni in carcere e loro non ne parlavano! È difficile affrontare la verità, lo è stato per loro e lo è stato per me, ma bisogna affrontare la verità. Allora non lo capivo e per vent’anni ho cercato di scappare dal mio passato pensando di poter dimenticare.
Quando mi sono accorta che stavo girando in tondo e che tornavo sempre indietro, ho capito che, se non mi fossi impegnata a testimoniare la mia storia, la vita non avrebbe avuto nessun valore. Senza queste testimonianze, confermerei e benedirei le morti dei miei amici nel carcere di Evin. È mio dovere testimoniare, altrimenti la mia vita non ha significato.