MACHIAVELLI L'ITALIA
Innanzi al dilagare di visioni ideologiche, che situano il nostro paese in fondo alla maggior parte delle graduatorie e lo dipingono sempre più piccolo, trascurando la sua dimensione intellettuale, spesso si dimentica che l’Italia ha avuto un grande maestro di politica ed economia, Niccolò Machiavelli, senza cui non possiamo intendere nulla di ciò che sta accadendo in Italia e nel pianeta.
È merito di Machiavelli se l’Italia ha potuto dare un contributo elevatissimo alla civiltà e al suo testo, dissolvendo così i luoghi comuni che ne facevano, e ne fanno tuttora, il paese ora del machiavellismo ora dell’antimachiavellismo, il paese dell’indaffaramento, senza il fare e l’occorrenza secondo cui, invece, le cose si fanno nelle nostre imprese e botteghe. Ben lontano dai denigratori, sempre pronti a manifestare contro l’anomalia, Machiavelli si muove sull’onda dell’elogio dell’Italia.
Gli economisti della conoscenza spesso lanciano l’allarme dalle pagine dei giornali economici perché “l’Italia ha un capitale di talenti sprecati”, ossia è perdente rispetto a paesi in cui sono in atto scelte meritocratiche dei cervelli. È vero che le università e le scuole italiane hanno bisogno di una trasformazione radicale, sia nei programmi sia nei metodi d’insegnamento, ma il termine di paragone con gli altri paesi non può basarsi sul numero di premi Nobel assegnati, per stabilire una graduatoria in cui l’Italia si trova al diciottesimo posto. È risaputo il criterio con cui vengono assegnati: basti pensare che ne è stato escluso uno fra i più grandi poeti del novecento come Mario Luzi. Il criterio è lo stesso che s’impone nell’ideologia della competitività, ideologia dell’invidia, dove la conoscenza deve rispondere al principio della trasparenza, assolutamente estranea alla scienza e, ancor di più, alla cultura e all’arte. Molti lavoratori della conoscenza, knowledge workers, nella loro vita non hanno mai letto un libro che esuli dal campo specifico della loro attività. Eppure, nel paese di Leonardo e Machiavelli, nel paese del rinascimento, ancora oggi c’è chi confonde i talenti con le specializzazioni e lamenta l’assenza di preparazione delle risorse umane, recuperando dall’inglese un termine degno dei principi della termodinamica. Human resource, “risorsa” vale in questo caso come qualcosa che è soggetto a esaurimento, come le scorte di carbone che servivano a far funzionare le macchine nell’ottocento.
Machiavelli non accetta la denigrazione dell’Italia a opera di quanti affidano il paese, nell’utopia della calma, a ogni forma di linciaggio: dall’invasione straniera di Carlo VIII al massacro. Di legazione in legazione, con la sua lingua diplomatica, inventa l’Italia e con essa la politica dove l’ospite è l’Altro, inassegnabile al positivo e al negativo, come nota Armando Verdiglione nel suo libro Niccolò Machiavelli (Spirali). Troppo facile prendersela con il fratello, com’è facile affidarsi al dominio straniero in accordo con i grandi. Dovremmo noi oggi, ancora una volta, acclamare i risultati delle multinazionali nella ricerca e nello sviluppo di nuovi prodotti e di nuovi processi, sempre più moderni, intendendo il moderno secondo un concetto di progresso e evoluzione, in cui il nuovo supera il vecchio, eliminandolo? E la poesia? E l’arte? E la parola originaria? Tutto ciò è nuovo o vecchio? Deve giovare alla competitività e allo sviluppo o alla qualità della vita? Nulla è più lontano dalla qualità del cosiddetto standard di vita. E Machiavelli dà un contributo al rinascimento proprio perché, quando inscrive l’Italia in un processo di qualificazione e di valorizzazione, non ha nessuno standard a cui attenersi. Anzi, con la sua scrittura per integrazione, scrittura scientifica, artistica e inventiva, scrittura diplomatica, egli è brainworker ante litteram. Brainworker e non knowledge worker. Il brainworker non ha bisogno di nessuna padronanza sulla materia per dire, per fare e per scrivere, per intendere e per qualificare le cose. L’Italia del brainworker, oggi come nel rinascimento, è l’Italia in cui le storie, gli avvenimenti e gli eventi si narrano, si ritmano e si scrivono entrando nel testo Italia, nel testo in cui nulla rimane al di fuori della parola, nessuna sostanza – pertanto nessuna risorsa da alimentare perché esauribile o consumabile – e nessuna mentalità – pertanto nessuna idea di fine del tempo in base a cui affidarsi agli stranieri, vincitori di premi Nobel. Se un economista della conoscenza ci dice che le risorse umane non sono come gli altri beni di consumo, perché le prime sono inesauribili, questo non basta a dissolvere il fantasma di padronanza secondo cui occorrerebbe “preparare le risorse umane per ottenere performance sempre più elevate nelle sfide poste dalla competizione”. Si tratta pur sempre del luogo comune secondo cui la qualità e la verità sono poste in principio e occorrerebbe semplicemente cercarle, negando l’invenzione e la logica particolare a ciascuno, negando il rinascimento della parola e la sua industria. Machiavelli, nella sua giornata, instaurava con ciascuno – dai tagliatori del bosco all’oste, dal beccaio al mugnaio, dagli antiqui uomini ai principi – vari dispositivi in cui importavano il dire, il fare, lo scrivere, la loro direzione e il loro indirizzo.
Quanti sono oggi gli intellettuali, i politici, gli imprenditori che instaurano dispositivi di educazione e di governo con ciascuno, dispositivi artificiali in cui importano l’aritmetica dell’amministrazione, la comunicazione diplomatica, l’istanza di conclusione e d’intendimento, l’istanza di qualità?
Questo occorre chiedersi prima di osannare le scelte meritocratiche. Occorre chiedersi come formare gli italiani. E interrogare banchieri, imprenditori, economisti, filosofi, poeti, scienziati attorno alle ipotesi dell’avvenire, anziché denigrare il paese. Occorre instaurare dispositivi di qualificazione e valorizzazione, in cui l’Italia s’inventa ciascun giorno.