THOMAS SZASZ, VIRGINIA WOOLF E IL SUICIDIO
Quando trent’anni fa mi recai come “visiting professor” negli Stati Uniti, fui sorpreso dalla constatazione che Thomas Szasz fosse pressoché sconosciuto dai colleghi delle principali università americane e che coloro che avevano letto i suoi libri parlassero di lui come di una persona senza dubbio intelligente e colta, ma anche un po’ stravagante ed eccessivamente tranchant. In Europa e in Italia, invece, il suo nome era molto noto per il libro Il mito della malattia mentale, scritto nel 1961, edito in Italia nel 1966 e riedito da Spirali nel 2003. Nel 1966, infatti, nel nostro paese c’erano già tutti i fermenti della contestazione contro le istituzioni totali, in particolare, il manicomio, mentre in America questi temi erano lontani dal dibattito culturale. Non c’era neppure il DSM (Diagnostic and statistic manual of mental disorders), per cui mancava una classificazione condivisa delle malattie mentali, da contrastare affermando che la malattia mentale non esiste. Pur avvicinandosi all’antipsichiatria di David Cooper o di Ronald Laing, senza conoscenze approfondite della fenomenologia che aveva fortemente influenzato il pensiero psichiatrico di quei tempi, Thomas Szasz, cercando di portare fuori dall’area medica la psichiatria e la malattia mentale, si basava su riferimenti metaforici e sistemi culturali forse anche più distanti dalla realtà psichica di quanto non lo fossero le dirette osservazioni e le esperienze mediche che intendeva scalzare.
Leggendo il libro di Szasz La mia follia mi ha salvato. La follia e il matrimonio di Virginia Woolf (Spirali), mi sono chiesto cosa abbia spinto l’Autore, dopo quarantacinque anni, a scrivere un saggio intorno alla “follia” della scrittrice inglese. Poco prima che uscisse, era comparso in America un libro su Virginia Woolf, scritto da Michael Cunningham, cui sono seguiti una rappresentazione teatrale sceneggiata dal commediografo David Hare e un film diretto da Stephen Daldry, dal titolo The Hours (che avrebbe dovuto essere il titolo originale di Mrs. Dalloway) interpretato da tre bravissime attrici come Nicole Kidman, Julianne Moore e Meryl Streep. Penso che questo film sia stato di stimolo per far scrivere a Szasz una biografia che valorizzasse i personaggi femminili, quasi tutti autobiografici, presenti nei libri di Virginia Woolf, donne che si accontentano di restare vive per gli altri perché, al fondo di ogni vita, “le ore, una dopo l’altra, sono importanti”.
Non meraviglia quindi che l’Autore abbia tratto spunto da aspetti di queste opere concordanti con le sue teorie, per scrivere un libro certamente interessante, che si legge velocemente, ma per alcuni versi discutibile.
Sicuramente la coppia Virginia e Leonard Woolf era sadomasochista. Lei aveva un’identità strana e bizzarra e non riesco a capire come Szasz, in base a un’unica discutibile opinione, neghi che fosse lesbica e avesse una relazione con Vita Sackville-West, il cui marito, il diplomatico e biografo Harold Nicolson, era notoriamente gay. Ancora, come bastian contrario, difendo il marito di Virginia (maltrattato dall’Autore), con cui non doveva essere facile vivere, donna sicuramente più intelligente e più aperta di lui e traumatizzata da abusi infantili che avrebbe subito dai cuginastri e da abusi di tipo educativo e religioso praticati dai genitori.
Szasz sottolinea che il suicidio della Woolf non è prova di malattia mentale. Può essere vero. Nel mondo ogni anno si suicidano milioni di persone e l’OMS, quando sostiene che è necessario diminuire il tasso di suicidi abbassandone la percentuale del 10-15 per cento entro il 2015, sottintende che si deve diagnosticare e curare precocemente la depressione, maggiore causa dei suicidi. Ciò non toglie che ci siano altri motivi di suicidio, come quelli individuati da Émile Durkheim nell’800 come “suicidio egoista” quale può essere stato quello di Yukio Mishima che si fa harakiri davanti alla televisione dicendo: “Oh immortalità, sei tutta mia”; oppure, quello “altruista” di Salvo D’Acquisto che si sacrifica facendosi fucilare per riscattare gli ostaggi presi dai tedeschi. Non solo, ma esiste anche il “suicidio anomico”, la cui spinta sta nel non credere a una data società o nel rifiuto del degrado dell’uomo dato dall’invecchiamento, come teorizzato da Jean Amerie che poi si è effettivamente suicidato. Pertanto, l’Autore, con cui sono d’accordo, non introduce una novità affermando che non sempre il suicidio è spiegabile con una malattia mentale, anche se in effetti proprio nel momento del suicidio può esserci una sorta d’“irrealizzazione della realtà”.
Altro aspetto importante del suo libro è il rapporto fra genio e follia. Nel Mito della malattia mentale, Szasz parla dell’opera Il gioco delle parti di Pirandello, autore poco conosciuto nel 1961 all’estero (mentre sarebbe stato meno strano se Szasz avesse ricordato l’Enrico IV) e Cesare Lombroso, il primo a scrivere su genio e follia, che sosteneva che fra la psicologia dell’uomo di genio e la patologia dell’alienato ci sono punti di contatto e di coincidenza. Dai tempi di Lombroso sono cambiate molte cose, eppure oggi sono in atto studi genetici su questo tema. Tra gli altri, risulta attuale una ricerca realizzata Nancy Andreasen negli Stati Uniti sulla genealogia delle persone geniali, dal quale risulta che la devianza può andare in direzione positiva e divenire genialità, o in direzione negativa e divenire follia. Non dobbiamo dimenticare che, ai tempi di Lombroso, la follia non veniva classificata sulla base del DSM, che all’inizio annoverava meno di un centinaio di forme diverse, mentre oggi è arrivato a classificarne quasi seicento, con una conseguente miniaturizzazione della nosografia. Thomas Szasz se la prende anche con Kay Redfield Jamison, una psichiatra molto popolare in America che si presenta al pubblico narrando la propria vita e raccontando di avere avuto fasi di depressione grave e poi fasi maniacali. Anche riguardo alla Jamison, non sono d’accordo con Szasz: la vita folle non spiega l’opera, ma è altrettanto vero che la vita è opera e forse è possibile che quell’opera avesse proprio bisogno di quella vita. L’Urlo probabilmente non si sarebbe configurato in quel modo se Edvard Munch non avesse avuto anche un disturbo mentale grave, così come lo stesso si può dire per Il campo di grano con i corvi neri di Vincent Van Gogh.
È importante a questo proposito la testimonianza di una poetessa italiana scomparsa di recente, Alda Merini: “La lunga malattia è servita perché, se non avessi avuto dodici anni di stasi, forse non avrei mai scritto. Quando la mente era oscurata e arrivata al limite di sopportabilità, che chiude con la realtà ed entra nel delirio, avevo bisogno di una pausa, che è stata finalmente rispettata, per cui ho potuto scrivere in quanto ho trovato un posto per parlare del mio disagio”.
Concludo citando un’osservazione molto bella di Karl Jaspers: “Lo spirito creativo dell’artista, pur condizionato dall’evolversi della malattia, al di là dell’opposizione fra normale e anormale può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla conchiglia: come non si pensa affatto al difetto della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale dell’opera non si pensa alla schizofrenia che forse è stata la condizione della sua nascita”.