A PROPOSITO DI OBAMA
Barack Obama è un presidente che ha cercato nei suoi primi due anni di alterare diversi equilibri all’interno della società americana, che fino a poco tempo fa erano considerati come acquisiti. Non a caso, in questa prima parte del suo mandato, una consistente fetta della popolazione americana si è mostrata molto più interessata a tematiche politiche e sociali rispetto al passato; è nato anche un movimento, quello dei Tea Party, che comprende per lo più repubblicani ma anche democratici e indipendenti. Ebbene, questo movimento – che ora conta anche deputati e senatori al Congresso – ha l’obiettivo di riportare gli Stati Uniti sul percorso che avevano tracciato i Founders – i padri fondatori – dove concetti come un governo centrale limitato e poco intrusivo così come l’autodeterminazione dell’individuo regnano sovrani.
Barack Obama è sicuramente il presidente più progressista che l’America conosca. Egli è stato il senatore più liberal che Washington avesse e, sebbene durante la sua campagna presidenziale si fosse mostrato spesso bipartisan, in realtà i critici più attenti sapevano che Obama si sarebbe mostrato per quello che in realtà è, ovvero, un presidente che vuole aumentare oltremodo il ruolo del governo federale e di conseguenza il controllo sui cittadini; le leggi da lui varate, oltre a provocare ingenti danni all’economia americana agendo sul debito pubblico (che già si trova in profondo rosso), hanno lo scopo di incrementare tasse, regolamentazioni, e in generale il ruolo di Washington su questioni che altrimenti dovrebbero riguardare i singoli stati e, ancora più nello specifico, il singolo cittadino. Ricordiamo che il federalismo è un concetto molto caro al popolo americano, in grado di rendere unico ciascuno stato e di permettere conseguentemente che gli Stati Uniti – nel loro complesso – siano più forti e competitivi; Barack Obama invece vuole scavalcare quest’idea di autodeterminazione. Ne è un esempio la riforma sanitaria: l’Individual Mandate obbliga ora ogni cittadino a comprare una copertura sanitaria, pena una sanzione pecuniaria. Eppure, la Costituzione non permette che il governo federale obblighi un individuo all’acquisto di qualcosa. L’Individual Mandate non può neanche essere considerata una tassa, visto che – affermano diversi critici – il denaro del Mandate va a compagnie private e non al governo federale. Non a caso, la riforma sanitaria è stata giudicata incostituzionale già da due corti federali – così come da diversi giuristi – e si pensa che presto il caso vada alla Corte Suprema e che, vista l’attuale composizione dei giudici, proclamerà l’Obamacare incostituzionale, obbligando quindi il Congresso a varare una nuova riforma sanitaria.
La riforma sanitaria, così come altre importanti leggi varate da Obama quali lo Stimolous Bill e il Tarp Bill, rappresentano – secondo molti critici – una filosofia politica ed economica abbastanza ‘’socialista’’, perlomeno secondo gli standard americani. Lo scopo di queste disposizioni, secondo i detrattori, sarebbe una maggiore redistribuzione della ricchezza e un maggior livellamento sociale tra ricchi e poveri. Il presidente Obama in persona ha ammesso di volere “ripartire le ricchezze”, concetto ribadito più volte nel tempo. Ebbene, le leggi sopra citate hanno questo scopo. Si pensi allo Stimolous Bill. Secondo diversi analisti, questa manovra finanziaria doveva servire, attraverso i suoi 700 miliardi di dollari, a stimolare l’economia. Ebbene, risulta difficile credere completamente a questa affermazione. Infatti, l’amministrazione Obama, poco prima di varare questa legge, aveva detto che se si fosse agito subito si sarebbe potuto contenere la disoccupazione entro l’8% (a quell’epoca di trovava intorno al 7,5%). Eppure, il picco massimo è stato raggiunto durante l’estate del 2010 con 10,4% di disoccupati e per venti mesi il tasso è rimasto abbondantemente sopra il 9%. Inoltre, molti milioni di dollari sono andati sprecati in Congressional Districts e Zip Code Areas che non esistono (si ritorna al concetto di inefficienza burocratica e di governo centralizzato); la maggior parte dei posti di lavoro creati, infine, sono temporanei e si trovano nel settore pubblico, che tradizionalmente non è quello che contribuisce maggiormente alla crescita economica come invece è il caso del privato. Infatti, molti posti di lavoro che sono stati creati grazie allo Stimolous hanno avuto una durata talvolta anche di qualche settimana soltanto e, trovandosi nel pubblico, i posti creatisi saranno costretti a essere continuamente finanziati dal governo anche nel futuro. E da chi preleverà il denaro maggiormente il governo? Dalla classe media e ricca. Anche per quanto riguarda il Tarp Bill, la legge volta a salvare gli istituti finanziari dopo la crisi del 2008, Obama è stato fortemente criticato. Questa manovra finanziaria garantiva una liquidità alle banche che avrebbero ripagato il governo con proprie azioni, permettendo così a Washington una sorta d’intrusione, una sorta cioè di nazionalizzazione (seppure temporanea) di banche e aziende automobilistiche. Pure in questo caso, si vede un disegno molto simile ai precedenti: un forte potere centrale del governo, che può decidere molto – forse troppo, secondo alcuni – privando di libertà un tempo considerate acquisite da parte degli americani. Un governo così grande da offrire tutto ciò che si desidera è così forte da riprendersi tutto nei confronti dei cittadini, avvertiva il presidente Ford.
Come si accennava precedentemente, dal punto di vista economico Barack Obama sta aumentando a dismisura il debito pubblico così come il deficit. Secondo molte voci contrarie al presidente, gli Stati Uniti incontreranno gravi problemi economici in futuro, tra cui un rischio d’inflazione, svalutazione della moneta e tassi di interesse maggiori. Questi fattori porteranno necessariamente a un rallentamento, o peggio, a una nuova recessione, del sistema economico americano. Si stima che il debito pubblico quasi raddoppierà nei prossimi dieci anni (ora si trova a 14 trilioni di dollari) a causa di deficit annui di circa 1,3 trilioni di dollari. Molti sostengono che è giunta l’ora di tagli nella spesa per non incorrere in problematiche potenzialmente dannose; eppure l’ideologia così liberale di Obama si oppone fermamente a molte delle proposte dell’opposizione, che ora è rinvigorita dalle elezioni di midterm del 2010.
Questi comportamenti ideologici da parte di Barack Obama scaturiscono in gran parte dalle esperienze e dalle frequentazioni avute in passato. Fin dalla sua più tenera età, infatti, ha avuto contatti con persone dai forti legami con le ideologie marxiste e comuniste, anticapitaliste e nazionaliste nere. Ha vissuto per molti anni della sua vita in Indonesia e alle Hawaii. La prima la nazione musulmana più popolosa al mondo, la seconda uno stato dell’Unione diventato tale pochi anni prima dove vigeva ancora un sentimento di rancore verso Washington; il futuro presidente ha vissuto per molto tempo in luoghi molto distanti dai valori e dalle tradizioni che molti americani (e tutti i presidenti fino ad ora) hanno potuto assorbire nella loro vita. Si pensi soltanto al pastore – Jeremiah Wright – della chiesa da lui frequentata per molti anni e dove egli e le sue figlie hanno ricevuto il battesimo. Questo pastore, un nazionalista nero di orientamento apertamente marxista, spesso nei suoi sermoni asseriva che l’11 settembre era ciò che gli Stati Uniti si erano meritati, che il virus dell’AIDS era stato infiltrato dai bianchi nella comunità nera e spesso malediceva gli USA per le ingiustizie che i neri dovevano subire. Ironia della sorte, proprio un presidente nero, proveniente della congregazione dello stesso Wright, è stato eletto presidente degli Stati Uniti.
Vediamo brevemente qualche cenno sulla politica estera del presidente Obama. Soltanto in queste settimane – con la crisi in Libia e in Egitto – i giornali italiani dedicano qualche articolo alla posizione del presidente americano su queste questioni. E non sembra che Barack Obama voglia far apparire gli Stati Uniti la nazione leader di sempre, che interviene ogni volta in cui sorgono dei problemi per poi risolverli. Ma questo trend è stato ben visibile fin dall’inizio della sua amministrazione. Per esempio, nel volere chiudere Guantanamo e giudicare i terroristi in tribunali civili (dove peraltro la difesa e di conseguenza il pubblico verrebbero a conoscenza delle tecniche d’interrogatorio usate); per esempio, nel non voler utilizzare più la frase “War on Terror”, bensì quella più politically correct “Overseas Contingency Operation” e quindi di fatto diminuire la rilevanza che il terrorismo di matrice islamica continua ad avere per l’occidente; per esempio, infine, nell’aver voluto compiere il cosiddetto “Apology Tour’’ – termine coniato da diversi critici – per il modo quasi supplichevole in cui il presidente si è posto nei suoi viaggi internazionali, spesso chiedendo scusa e ponendo gli Stati Uniti in difetto per i ‘’torti’’ (secondo l’idea di Obama) che l’America ha inflitto in passato al mondo. La sua posizione in politica estera è quella di un presidente internazionalista, che vuole cedere una parte della sovranità americana al diritto internazionale e ad altri organismi mondiali, cercando – pure in questo caso – di livellare le ricchezze. Questa volta, però, non tra ricchi e poveri ma tra americani e il resto del mondo.
(7 marzo 2011)