LA LUCE DEL VENTO
Ammirando la bellissima Casalgrande Ceramic Cloud del maestro giapponese Kengo Kuma, illuminata dalla luce che lei ha progettato, si ha l’impressione di ascoltare due artisti che s’incontrano e raccontano ogni volta una storia differente, a seconda del momento della giornata e delle condizioni atmosferiche. Lei lavora con i più grandi architetti, artisti e musei del mondo. Fino a che punto nei suoi progetti la luce diviene materia dell’architettura?
La luce deve essere progettata partendo da un presupposto fondamentale: deve essere al servizio dell’architettura che va interpretata, esaltandone volumi e superfici e mettendone in evidenza dettagli, particolari, materiali. Non amo essere definito un light designer, ma un progettista perché credo che sia importante cimentarsi con ogni problema progettuale trovandone di volta in volta le giuste soluzioni, confrontandosi con gli architetti, la loro sensibilità e il loro modo di fare. È importantissimo per me l’ascolto, sia del cliente che del progettista con cui mi confronto.
Ciascun architetto ha a disposizione un ampio ventaglio di scelte stilistiche: c’è chi si esprime attraverso le grandi tecnologie e chi, come Kengo Kuma, attraverso la materia, chi è portato al minimalismo e chi verso un’architettura caratterizzata da un grande stile decorativo, ma per ognuno di questi casi penso che i risultati più interessanti si ottengano quando la luce diventa materia fondante del progetto architettonico, quando la luce è capace di raccontarlo, di farlo vivere.
Il progettista della luce sviluppa pensieri che raccontano storie di luce, che emozionano e comunicano. Il mio percorso mi ha portato a scrivere poesie e racconti di luce. Quando di fronte ad un’opera come quella del maestro Kuma parlo della luce delle nuvole o della luce del vento è perché, oltre alla funzionalità dell’illuminazione di un’opera pubblica, vedo il potenziale narrativo di questo oggetto: la luce diventa mezzo di espressione e di comunicazione, diventa lo strumento con cui riesco ad esprimermi.
Quindi potremmo leggere le opere degli architetti per cui lei progetta l’illuminazione come se fossero libri, racconti, che a loro volta ispirano altri racconti, i racconti e le poesie di luce?
Anche nelle mie produzioni di poesie di luce vado oltre al concetto di video per usare la luce come fosse una traccia scritta, un racconto; non video, ma film che vengono prodotti per illuminare ed emozionare. In questo periodo sto lavorando all’illuminazione di un grande museo per un’importante casa di moda: trovo molto interessante la possibilità di creare poesie di luce che illuminino carte, stoffe, superfici, perché toccare i materiali fa parte dell’esperienza artistica e della fruizione dell’opera. La tecnologia oggi è talmente esasperata che non permette più di avere un contatto diretto con i materiali. La tecnologia moderna va sicuramente utilizzata, perché è il nostro futuro, ma questo non vuol dire che possiamo permetterci il lusso di ignorare i materiali, soprattutto se vogliamo produrre opere che restino nell’eternità e non oggetti legati alle mode.