QUALE CURA PER LA CITTÀ

Qualifiche dell'autore: 
assessore all'Urbanistica del Comune di Milano

Intervista di Sergio Dalla Val 

Perché il titolo di questo convegno, “Come avere cura della città”? 

Spesso si sente parlare di governo della città, di pianificazione della città, di progettazione della città, mentre più raramente si parla di come avere cura della città. Avere cura della città vuol dire anzitutto amarla: si ha cura di una cosa perché la si ama. Ma avere cura della città vuol dire anche viverla, sentirsi dentro la città: in senso lato, “avere cura” è da intendersi come appartenere a un organismo che si vuole condividere, per il quale ci si sente impegnati, alla cui crescita e miglioramento si vuole collaborare. Curare vuol dire anche, nel senso più etimologico, “rimediare ai mali”; vuol dire, partendo dalla conoscenza, dalla diagnosi e dall’approfondimento, correggere, rimediare alle condizioni negative, patologiche, alle condizioni di male che ci possono essere.

Molto spesso, in tutto il secolo scorso si sono sviluppate culture, o meglio ideologie, contro la cura della città. Ideologie per applicare sulla città un’impostazione che stava a monte, mentre invece curare vuol dire immedesimarsi nelle caratteristiche di qualcosa e correggerle, migliorarle. La città razionalistica, quella della società industrializzata, nasce da una profonda concezione ideologica di una città che deve rispondere solo a certe caratteristiche ben precise di delimitazione di spazi di libertà tra chi produce, chi risiede e chi svolge attività di guida o di governo. Spesso, in passato l’approccio ai problemi della città è stato quello di progettare, pianificare, sovrapporre un’impostazione già data per scontata, a monte. Proprio all’opposto dell’approccio moderno alla cura, secondo cui per curare bene la cosa più importante è prevenire. L’attenzione a ciò che sta per succedere, a ciò che accadrà, è uno degli elementi fondamentali per intervenire a guidare i processi di trasformazione delle città. Non c’è bisogno di sottolineare come tutto questo sviluppo che stiamo vivendo nelle telecomunicazioni e nella comunicazione in senso più lato stia di fatto trasformando tutte le nostre città, stia trasformando il modo di vivere e, in questo senso, si tratta allora di trovare i modi per una corretta conoscenza, una corretta cura di ciò che si sta sviluppando, per individuare gli elementi più positivi che si stanno producendo, come per esempio un uso positivo delle nuove energie. 

Può fornire alcuni esempi di parametri ideologici per la città?

La condizione di blocco, soprattutto ideologico, che per molto tempo si è vissuta nel nostro paese, sui temi della pianificazione del territorio e dell’edilizia, è stata particolarmente marcata. Verso la fine degli anni sessanta, sono state introdotte normative che hanno in qualche modo determinato una svolta perversa. È degli ultimi anni sessanta l’introduzione rigorosa e aritmetica degli standard urbanistici: ogni persona deve avere sul territorio una quantità di spazio fisico in cui alloggiare e una quantità di spazio fisico libero sul quale vivere. Con una pianificazione esasperata, in contrasto con la realtà territoriale di tutto il nostro paese, non solo delle grandi città: cento metri cubi per abitante, e diciotto metri quadrati di area verde. Questi riferimenti non avevano nessun riferimento con la realtà storica del nostro paese, sono stati introdotti ideologicamente e duramente come l’orizzonte entro il quale si sarebbe dovuto collocare tutto il modo di vivere della nostra società. Ognuno avrebbe avuto quello spazio e quello sarebbe stato il suo orizzonte.

L’esito di questa impostazione lo ritroviamo in quelle che chiamiamo periferie. E le vediamo dappertutto, perché “periferia” non è soltanto il quartiere periferico della città amministrativa di Milano, la periferia c’è in ogni insediamento più o meno grande sul territorio, non solo nella nostra realtà milanese: è il tragico condominio nel quale possiamo imbatterci anche a sole poche centinaia di metri da qui. Condominio dove, praticamente, non ci sono le condizioni naturali della crescita della famiglia, perché l’alloggio è bloccato: se la famiglia cresce, bisogna cambiare casa o bisogna, più facilmente, incredibilmente, frantumare la famiglia. L’edificio è quello. Tra l’altro, con il condominio cresce, in tutti gli insediamenti, la cosiddetta “serie aperta”, perché invece di ritrovare il luogo dell’incontro nella corte e, poi, nella piazza, tutto viene spostato all’esterno in una specie di strano amalgama, per cui il luogo dell’incontro è drammaticamente il pianerottolo, che è il luogo più brutto di tutto l’edificio, di solito senza neppure un rapporto con l’esterno. Per cui, non c’è più il luogo dell’incontro. Ma questo è l’esito di un’impostazione ideologica che non vuole l’incontro, che vuole la contrapposizione e il conflitto. La città costruita secondo queste regole è la città rispetto alla quale oggi noi tutti affondiamo le più grandi critiche, è quella che chiamiamo “periferia”. Tra l’altro, siccome questa è un’impostazione che non è stata soltanto del nostro paese, ma si è diffusa in quasi tutto il comparto nel mondo occidentale, le periferie le troviamo in tutti i paesi e quindi è un dramma che coinvolge tutti.

Quali sono i nuovi modi e criteri per una nuova cultura della città?

Ora, oggi, a distanza ormai di più di trent’anni, non solo si possono constatare drammaticamente le ripercussioni negative, ma finalmente si sta cominciando a porre qualche rimedio, anche perché poi, provvidenzialmente, la forza delle cose, la forza della realtà va oltre la forza di certe legislazioni, di certe imposizioni, specialmente in una realtà come quella del nostro paese che ha una vivacità e un tenore creativo fortissimi. Da un po’ di tempo si sta cominciando a cogliere come ci sia una dimensione di bisogno che va oltre la corrispondenza di numeri e che va verso quella che viene chiamata qualità. Si sta cominciando a capire che i problemi della persona, del nucleo, della comunità, del modo di vivere, del modo di lavorare, si possono affrontare e risolvere entro una dimensione che deve tener conto non solo di bisogni in senso stretto quantitativi, ma di bisogni in senso molto lato qualitativi. Finalmente, si ricomincia a parlare anche della qualità estetica, del bello. L’estate scorsa c’era un dibattito sui giornali sulla qualità estetica di Milano, sulla bellezza della città, sul tema dell’architettura, della cura. Io mi sono permesso di far rilevare anche ai media, che però sono molto refrattari quando si fanno osservazioni di fondo, che il Cardinale Martini due anni fa, ha fatto la Lettera pastorale sul tema della bellezza, diceva che la bellezza avrebbe salvato il mondo. Ma queste sono cose che in fin dei conti disturbano i media. Era però, a mio avviso, un raffronto molto bello quello che veniva fatto da quella lettera, perché, all’affacciarsi del terzo millennio, il tema della bellezza si è posto non in termini banalmente estetici, cosmetici o quant’altro, ma in termini di contenuto. In tutta la lettera Martini esplora il binomio “bene-bello”. Il bello è la sublimazione di un bene. E il bene nasce dalla bellezza.

A che punto sono il dibattito e le proposte rispetto al degrado, sempre più evidente, dei centri storici?

Prima che, nella seconda parte degli anni settanta, si sviluppasse un’attenzione forte su questo tema, c’erano state negli anni sessanta demolizioni sommarie e ricostruzioni senza alcuna attenzione. A questo poi si è contrapposta la quasi mummificazione del centro storico. Sono stati due scenari, un’escursione del pendolo che ha portato da un momento di quasi totale saccheggio a un momento poi di mummificazione totale. Ma la soluzione dei problemi non stava né dall’una né dall’altra parte. Proprio perché questi centri sono certamente storici, ma hanno avuto nel tempo tutta una loro evoluzione, una loro stratificazione, che è stata in qualche modo la risposta all’evoluzione dei modi di vivere. Per questo la mummificazione in senso stretto, il blocco in senso stretto, è in contraddizione con la loro stessa natura. Il volere necessariamente bloccare e impedire qualunque evoluzione è contraddittorio con la loro stessa natura. Allora, secondo me, la possibile via d’uscita è proprio quella di consentire quelle evoluzioni e quelle trasformazioni che conservino la memoria del passato e, quindi, che siano sempre capaci di ricordare il passato, ma nello stesso tempo di consentire lo sviluppo delle attività che oggi sono proprie del nostro modo di vivere, del nostro modo di essere. Conservare la memoria significa conservare i segni fondamentali, vuol dire anzi metterli ancora più in evidenza se ce n’è bisogno, renderli più fruibili, farli diventare una provocazione continua. Se invece si vuole conservare proprio tutto nel modo in cui è, si finisce solo per impedirne una reale utilizzazione flessibile e progressiva. In alcune città europee, interventi molto significativi nei vecchi centri delle realtà storiche hanno saputo difendere il passato, senza affatto limitare gli sviluppi e le trasformazioni. Quindi, la ricetta c’è, ma presuppone l’approfondimento della natura dei luoghi, che spesso non è sufficientemente sviluppata e sufficientemente conosciuta.