POESIA DEL SILENZIO
Nella clausura prevale il silenzio del mondo, affiora l’interiorità. Ha il valore di un chiudersi in se stessi per un viaggio di scoperta e di formazione. Le monacazioni più o meno forzate sono diventate romanzo ben prima di Diderot e di Manzoni, prima che emergessero come problema sociale.
Suor Juana Ines de la Cruz, nel secolo d’oro della letteratura spagnola, sceglie il silenzio solo quando il vincolo del potere la costringe a rinunciare a scrivere.
La clausura non è soltanto la segregazione monastica, ma la condizione esemplare della poesia contemporanea. Il poeta sceglie il silenzio come una forma del parlare. In un’antologia che ho curato nel 1997 (Il silenzio, Edizioni del Laboratorio) scrivevo nella prefazione: “Il silenzio non si può tematizzare. Lo si può rappresentare solo per assenza, attraverso la mediazione dei suoi contrari, suono e immagine, la parola e il segno grafico, che restano le tracce sensibili di una condizione liminare”.
Del silenzio esistono diversi gradi. Lo zero assoluto del silenzio è una linea di confine che a nessuno è dato attraversare. L’intensità dell’ascolto di chi è solo nella propria cella volontaria sfiora la lacerazione dell’urlo, della condizione interiore che è invocazione di una “altra” e “alta” voce , della parola rivelatrice.
Ci sono gradi di silenzio che non possono avere rappresentazione. In alcuni luoghi della religione induista sappiamo che, uscito dalla gola della Tartaruga che regge la Terra, il suono è dio, Nadan Brahmhum, e costituisce la legge del Raga, la musica sacra. In altri luoghi del sanscrito il cielo è detto svarga, dove le divinità restano accessibili a chi segue il rito, ma esiste la parola kha a indicare insieme cielo e caverna, spazio e cavità: mentre akasa è lo spazio illimitato, in cui nessuno abita, tranne il suono.
Ma la poesia che tende al silenzio come propria condizione non può prescindere dalla voce, e la pronuncia diventa la verifica storica, vivente, della parola.
Il mondo è invaso da un rumore costante, un sottofondo inquinante nel quale si stagliano messaggi finalizzati a colpire l’attenzione, dove l’acustica è amplificata e sovrapposta. Qui all’armonia si sostituisce lo sconcerto. Scrivevo nella citata antologia: “L’invito a rappresentare il silenzio, a tentarne l’impossibile percezione nelle condizioni attuali, provoca uno spaesamento che si dilata fino all’irrealtà”.
La poesia nel tempo storico ha fatto del silenzio un idolo desiderante. La parola tende al confronto con la pittura (Orazio), ma la sfida perfetta, quella che risolve l’espressione artistica senza pagare alcun tributo al concetto, è propria della musica. La quale a sua volta conosce del suono e del silenzio sfumature che indagano i livelli più sofisticati e rarefatti.
Silenzio in poesia non indica e non significa il punto più contenuto della parola, ma il vertice di una condizione in cui l’ascolto risulta massimamente acuito.
Prendiamo la pagina bianca di Mallarmé. Fuori dal gioco della causalità la pagina nuda diventa il segno di una scrittura assente, evocata in un’esemplare economia di mezzi.
Ora Mallarmé sosteneva che il silenzio fosse l’intervallo fra le due note. Milo De Angelis ha chiosato in seguito che il silenzio è invece soltanto l’assenza della due note: un nulla fra due assenze, la rottura del ritmo, della fisicità della parola.
Un esperimento di scrittura del silenzio è rappresentato, alla fine dell’Ottocento, dal Canto notturno del pesce di Christian Morgenstern. Non voglio aprire qui il problema così com’è stato sollevato, e se vogliamo risolto, dalla poesia concreta e visiva. Mi porterebbe su una linea interessante, nel confronto fra parola, segno iconico, musica, filosofia del linguaggio. Mi porterebbe a parlare di John Cage, di Alberto Pimenta, di James Joyce e sui margini di confine tra le arti. Ma andrebbe oltre.
Per Tomaso Kemeny invece il silenzio è una condizione profondamente incarnata nello spazio e nel tempo. “La parola sorse/ da crateri di luce/ e creò un mondo sradicato/ dal proprio principio, fino/ alla fine dei tempi irripetibile./ Ma tu ascolta/ solo la parola che scaturisce/ dalle fenditure del tempo/ e trapela dai circuiti del silenzio/ nel medesimo fremito celando/ carne e polvere”, (Il silenzio, cit., pag. 79).
Ugualmente per Cesare Viviani “silenzio dell’universo/ è lingua di chi si è perso/ e tutto ha lasciato, dato:/ parola di chi è annullato./ Silenzio colmo di voci”, (Silenzio dell’universo, Einaudi, 2000).
La clausura poetica diventa, nella coscienza poetica contemporanea, un exemplum – e questo accanto all’urlo, alle articolazioni retoriche marcatamente futuriste o beatnik.
Il silenzio in poesia è spoglio e meditante, tende a profondità illimitate, mentre reca in sé la possibilità estrema della dicibilità della condizione umana.
Scrive Adrienne Rich: “Il programma di musica classica/ che ora su ora risuona nell’appartamento/ il sollevare il risollevare e sollevare ancora il telefono/ le sillabe che scandiscono/ ora e sempre il vecchio soggetto/ la solitudine del bugiardo/ che abita la rete perfetta della menzogna / torce i numeri per affogare il terrore/ sotto la parola non detta”.
Per concludere con un’altra voce femminile – in omaggio al tema del presente convegno –, va notato come nel silenzio poetico esistano suoni e articolazioni, pause e ritmi, durate e immobilità, ma soprattutto un cantabile assolutamente particolare e specifico. Scrive Maria Luisa Vezzali: “Se il silenzio è il sonno/ in cui noi strettissimi/ sogniamo il sogno bianco/ calmo, in attesa, senza/ tregua, del predatore/ bocca intatta infinita/ di sprofondante scala/ a chiocciola dell’orecchio/ verso luoghi interiori/ unisoni col tacet degli dei/ nel fondo della neve/ nel fondo della notte”, (Il silenzio, cit., pag. 104).