L’IMPRESA DELLA TOLLERANZA E DELL’OSPITALITÀ
In che modo la questione donna può dare un contributo a ciascuno per divenire caso di cifra? La donna o le donne in quanto tali non esistono, anche se c’è sempre stato in ogni epoca il tentativo di rappresentare come nemico o di sopprimere chi non si adeguava ai canoni del conformismo, con la lapidazione, con l’uccisione fra le mura domestiche o, in passato, con la monacazione forzata.
D’altra parte, come potrebbe divenire caso di qualità chi si situa fra le donne o rappresenta nelle donne la differenza e l’Altro? Assegnare a qualcuno, magari a se stesso, la differenza vale a porre un limite al proprio itinerario, a rassegnarsi nell’idea di origine, dicendo per esempio “Io non posso divenire presidente del consiglio di amministrazione perché sono donna”. L’idea di origine o di appartenenza a un gruppo, una casta, una razza, un genere, è un’idea per non fare, un’idea con cui ognuno si fa vittima, in quanto mancante, castrato e deficiente.
Il viaggio della vita ciascun giorno procede dall’apertura, in direzione della qualità. Eppure, c’è chi fa appello alla conoscenza e vuole sapere che cos’è la donna, che cosa vuole, come gode, che cosa significa. Sono le domande che via via si sono poste la filosofia, la politica, la medicina. La questione donna invece è la questione non di un sapere sessuale, sulla vita e sulla morte, ma dell’ignoranza del viaggio e sottolinea come la ricerca e il fare non si basino sulla conoscenza. Anche gli stessi movimenti femministi, purtroppo, ritenevano di dare un vantaggio alla donna, battendosi perché non fosse più considerata oggetto ma soggetto. E soggetto, come dice lo stesso termine latino subjectus, è chi si getta sotto, si fa vittima.
Allora la questione donna non riguarda solo le cosiddette donne, ma è una questione storica e politica. Ne va dell’avvenire della civiltà, perché, senza la questione donna, ognuno, anziché intervenire quando e dove occorre, parlando, facendo e scrivendo, è destinato a rincorrere i propri fantasmi materni, oscillando fra la padronanza e la possessione, nell’eterna lotta per il puro prestigio fra il signore e il servo, a cui faceva riferimento Hegel. Ognuno, non una donna, può imbattersi nel fantasma di padronanza e, se rimane invischiato nella presunzione di conoscenza, sta ad aspettare che accada qualcosa che finalmente lo salvi, lo metta al posto giusto e gli dia la soluzione della vita.
Non c’è più soluzione: è il teorema dell’analisi (dal greco analysis: senza soluzione), con cui s’inaugura la domanda di qualità. Altro che ricerca della sistemazione, ricerca dell’albero genealogico a cui aggrapparsi per avere un senso, un sapere e una verità, un valore come prezzo da dimostrare, da rivendicare o da riscattare. Come fanno alcune donne che lasciano la famiglia soltanto perché dicono di non sentirsi “capite” e passano dal ruolo di vittima a quello di carnefice.
Rappresentare la differenza e l’Altro nella donna, come nell’ebreo, nello straniero è la base di ogni razzismo. Ma la prima forma di razzismo è il pregiudizio che attribuisce all’Altro il positivo e il negativo, mentre la giornata si spreca alla ricerca del cliente ideale, del partner ideale, dell’evento ideale, e non ci si accorge che l’altro tempo è in atto, non passato, presente o futuro, ma infinito, come constatiamo nell’impresa. Se c’è una cosa che c’insegnano le donne che hanno fondato i monasteri è proprio che l’impresa poggia sulla tolleranza e sull’ospitalità. L’impresa è ciascuna casa, una casa di produzione come un monastero, in cui la differenza non è rappresentata, ma procede dal fare secondo l’occorrenza. Quella casa in cui s’instaura il mito della madre, in cui ciascuno dà il proprio contributo trovando un modo differente e vario, senza polemica o invidia sociale, confronto con il vicino che ha di più o è di più e, quindi, esige l’eliminazione del superfluo e la chiusura.
La parola è inconfiscabile, non si può dare o togliere e così il silenzio: non a caso nei monasteri si sono formate autrici come santa Caterina da Siena, tanto influente da convincere Papa Gregorio XI a tornare da Avignone a Roma. Nella lettera del 6 maggio 1379 a Carlo V, re di Francia, santa Caterina chiama “amor proprio” ciò che rende gli uomini simili agli animali perché attribuiscono a sé ciò che è opera di Dio. Infatti, potremmo intendere l’amor proprio come il fantasma di padronanza, l’arroganza di chi presume che esista la via facile, l’accesso diretto al piacere, al godimento e alla verità. E si lamenta perché tale accesso sembra un privilegio riservato a pochi. Ma l’idea che il godimento sia prerogativa del sesso forte era stata messa in discussione già negli anni ottanta nel libro Il complesso di Cenerentola, da Colette Dowling, che notava come, troppo spesso, le donne non osano intraprendere un’attività che le porta fuori dalle mura di casa per paura del rischio. Chi si lamenta di essere maltrattato, di dover subire e sottomettersi al volere di qualcuno che lo tiranneggia sarà sempre figlio di mamma, senza padre. La funzione di padre come funzione di nome nella parola impedisce di fondarsi su un nome del nome come garante della genealogia. In virtù della funzione di nome, innominabile e anonimo, le donne non hanno bisogno di riscattarsi dall’anonimato, non sono le donne a essere anonime ma il nome. Le donne possono intervenire e divenire protagoniste, senza aspettare il riconoscimento del padre o del principe azzurro, con cui riscattarsi da un destino di presunta inferiorità. Santa Caterina non ha avuto bisogno di essere riconosciuta o autorizzata per scrivere le sue lettere, che hanno influenzato il corso degli eventi in Europa, non si è chiesta “Chi sono io per fare questo?”, non ha cercato la propria presunta identità, ma semplicemente è intervenuta come e quando occorreva.