ARTE E NARRAZIONE
Mi limiterò a dire da quali ragioni sono stato spinto a scrivere il libro Angelica Kauffmann (Spirali, 2008). Io ho grande ammirazione per gli autorevoli colleghi che si sobbarcano la fatica di portare a termine monumentali monografie sui massimi campioni della storia dell’arte, però, preferisco percorrere strade meno battute.
Qualche anno fa, ho scritto il libro Le impressioniste, perché una storia completa delle pittrici che hanno partecipato all’avventura impressionista non esisteva. Come non esisteva uno studio organico sui pittori italiani che hanno operato in Francia a cavallo dell’’800 e del ‘900, quelli che i francesi chiamavano les italianes de Paris: De Nittis, Modigliani, De Chirico, De Pisis, Savinio e altri ancora. Anche a questo tema ho dedicato un libro.
Non diverso è il motivo alla base del libro dedicato alla Kauffmann. Tempo fa, ho tenuto, per un’istituzione culturale romana, un corso sulla pittura al femminile dal ‘500 al ‘900, a partire da Sofonisba Anguissola fino a Frida Kahlo e a Leonor Fini. Una lezione l’avevo dedicata ad Angelica Kauffmann.
Ricorrendo, nel 2007, il bicentenario della morte della Kauffmann, ho pensato che anche in Italia si sarebbe acceso un nuovo interesse verso questa straordinaria artista, la più grande, a mio parere, tra le pittrici operanti nella seconda metà del ‘700. In Germania, per l’occasione, sono state organizzate due mostre in due diverse città. Da noi non vedevo avverarsi nessuna iniziativa, così ho pensato di scrivere questo libro. La Kauffmann mi offriva l’occasione per esercitarmi nel genere saggio-biografia che mi è congeniale.
La sua personalità artistica, così mirabilmente in equilibrio tra il tramontante gusto rococò e la trionfante voga del neoclassicismo, di cui lei evita il gelido nitore in virtù di un soffio di prematuro romanticismo, mi sembrava molto interessante. C’era in lei qualcosa di vivo, di immediato che non si riscontra negli artisti suoi contemporanei. Quando descrive i suoi dipinti usa molto spesso l’espressione: “è il momento in cui”. È magistrale il modo con cui coglie il punto culminante della rappresentazione, così come coglie nei ritratti il segno di una personalità, esercitando un’analisi psicologica finissima.
A questo si aggiunga la ricchezza tempestosa della sua vita privata, gli scandali, gli amori, le delusioni. Anche questo mi attraeva molto.
Qualche giorno fa, un valente storico dell’arte, un cattedratico che, come usava dire una volta, mi onora della sua amicizia, mi ha inviato un volumetto di venti pagine, in cui si fa riferimento a qualcosa di cui parlo nella biografia di Angelica Kauffmann. Come ci sono gli scrittori unius libri, cioè autori di un solo libro, o di cui si ricorda una sola opera, ci sono anche gli artisti unius picturae. E il pittore tedesco Wilhelm Tischbein è tra questi. Non c’è chi non conosca il celebre Ritratto di Goethe nella campagna romana: il poeta avvolto in un grande mantello bianco, in testa un cappello a larga falda, l’espressione malinconica e meditativa, davanti a lui dei ruderi di epoca romana. È opera di Tischbein, che vive e lavora a Roma negli anni a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo.
Tischbein viene a sapere che i frati di un convento nei pressi di Porta del Popolo, a Roma, sono intenzionati a vendere una Deposizione di Daniele da Volterra, di loro proprietà (non è quella famosa che sta a Trinità dei Monti). Egli porta la notizia ad Angelica Kauffmann, che, in virtù del suo grande successo artistico e commerciale, ha una larghissima disponibilità economica e una cospicua collezione di dipinti di grandi maestri, in particolare pittori di epoca rinascimentale. La Kauffmann acquista la Deposizione. Il quadro passa poi per diverse mani sempre con la stessa attribuzione. Con un encomiabile lavoro di ricerca stilistica e iconologica, l’autore del volumetto dimostra che l’attribuzione a Daniele da Volterra è insostenibile: l’opera è certamente di mano del pittore manierista Jacopino del Conte. Lo dimostra anche grazie a un massacrante lavoro di ricerca d’archivio di cui io non sarei mai stato capace.
Perché parlo di questo? Per via della dedica apposta al volumetto: a Giuseppe Ardolino, appassionato narratore di storia dell’arte. Una dedica che suona addirittura affettuosa, ma che cela, in modo consapevole o inconscio, un’arrière pensée: quel “narratore di storia dell’arte” mi esclude dalla compagine degli specialisti di stretta osservanza, quegli storici che, anche in virtù di un linguaggio pressoché criptico e iniziatico, comunicano a pochi eletti i risultati delle loro ricerche. Questa “esclusione” mi sta benissimo. Quando io scrivo delle cose dell’arte non intendo tenere una “lezione di storia dell’arte”, ma condurre una “conversazione sui fatti dell’arte”, e per fare questo ho bisogno di appigli storici, biografici e, perché no?, aneddotici. Ritengo che il più geniale pittore del Novecento italiano sia stato Giorgio Morandi, però non saprei mai scrivere un saggio-biografia su questo eremita cittadino, su questo artista che ha avuto una “vie sans histoire”, come direbbero i francesi. Certo, mi sento isolato: ben pochi in Italia privilegiano il lato narrativo della storia dell’arte. Lo hanno fatto qualche volta Flavio Caroli e Stefano Zuffi, lo fa Fabio Isman, ritrovavo questi elementi negli articoli di Federico Zeri e di Giuliano Briganti. Non è così in altri paesi, in Francia, specialmente. Per esempio, i fatti dell’École de Paris degli anni Venti sono stati mirabilmente raccontati da Francis Carco nel suo De Montmartre au Quartier latin. E così pure ha fatto André Salmon.
Oggi, quegli stessi anni e i decenni successivi sono stati evocati in modo suggestivo nel volume Montmartre e Montparnasse da Dan Franck, un autore cui io guardo come a un modello.
Capisco che questo approccio sia un limite o un vizio, ma è un vizio dal quale non ho nessuna intenzione di distogliermi.