MEDICINA E ARTE

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrematico, direttore dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

In che modo s’incontrano medicina e arte? E fino a che punto la medicina è un’arte e non qualcosa che debba contrastare l’arte, ritenendola non controllabile secondo i parametri del discorso scientifico? E qui occorre aprire una parentesi sulla distinzione fra scienza e discorso scientifico. Come c’insegna Leonardo da Vinci, infatti, non è la scienza a opporsi all’arte, anzi l’arte non può fare a meno della scienza (come scrive nel Libro della pittura, è essenziale per i pittori lo studio dell’anatomia “di nervi, ossa muscoli e lacerti, per sapere nelli diversi movimenti e forze qual nervo o muscolo è di tal movimento cagione; e solo far quelli evidenti e questi ingrossati, e non li altri per tutto, come molti fanno, che per parere gran disegnatori fanno i loro nudi legnosi e senza grazia, che paiono a vederli un sacco di noci più presto che superficie umana, ovvero un fascio di rafani, più presto che muscolosi nudi”). Sono i luoghi comuni della scienza, è il discorso scientifico a introdurre la dicotomia fra episteme (ciò che sta su, ciò che s’impone da sé), la conoscenza superiore e immutabile che riguarda “gli universali e le cose che esistono necessariamente” (Aristotele, Etica Nicomachea,VI, 1140b), e téchne, la conoscenza parziale dei principi utili per le arti (téchnai) o conoscenze particolari, rivolte alla produzione di qualcosa. (Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 1140a). La conoscenza della téchne è quindi piuttosto intesa come capacità di fare, l’abilità dell’artista di modellare il marmo o quella dell’artigiano di lavorare il legno e i metalli, e può anche avere un’accezione di espediente buono o cattivo.  
Questa dicotomia fra episteme e téchne viene messa in discussione nel rinascimento, ma ancora oggi purtroppo informa di sé la teoria e la pratica di molte attività, compresa quella della medicina. Ragion per cui può accadere che un medico creda di dover acquisire una conoscenza superiore, un’episteme, grazie alla quale intervenire per curare ciò che non va, per curare il sintomo, per normalizzare ciò che non è conforme e non sottostà allo standard. Pensa che il suo compito sia quello d’imparare a saperci fare con il sintomo. Allora, come in ogni discorso scientifico che si rispetti, il sintomo viene inteso come segno della malattia, quindi ne viene negata la portata intellettuale, quella stessa portata che già Freud aveva individuato quando paragonava il sintomo a parole non dette, cicatrice nella rimozione, che proprio per questo risultava ancora più rilevante di quel che è detto, ma soprattutto un modo che l’isteria aveva per comunicare attraverso il corpo.
Credere che l’isteria, la nevrosi ossessiva, la schizofrenia, la paranoia siano malattie vale a togliere la portata intellettuale del sintomo come ciò che non va e che si dice in un modo non comune, ma soprattutto non semiotizzabile e non riconducibile a un senso unico, proprio come l’arte, che non si lascia finalizzare, o come il gioco, che non serve a una causa. Impossibile porre una finalità al gioco. Qualsiasi finalità sarà strutturata da esso, trascinata nel delirio. Il sintomo dice che l’arte, come il gioco, non s’impara. Non solo non s’impara una volta per tutte. Questo vale anche per la tecnica della psicanalisi, ma anche per la tecnica della medicina, se intesa come scientifica, anziché come pratica finalizzata a dare la soluzione, la salvezza, a guarire dall’arte e dalla follia. 
Chi crede che la follia sia del soggetto, che ci sia il soggetto folle, crede che ognuno possa avere bisogno, a un certo punto, di lasciarsi andare, di fare ciò che vuole, di abbandonarsi. Il soggetto della follia sarebbe il soggetto che può dire la presunta verità sulla vita e sulla morte. Ma la follia è il contrappunto, qualcosa che non va, eppure è indice di un altro andamento. Questo aveva inteso Freud quando notava che il sintomo indica un altro funzionamento, non il fatto che le cose non funzionino. Armando Verdiglione definisce il sintomo una risorsa della parola. Infatti, se non è inteso come segno della malattia, il sintomo avvia il cammino artistico, perché il contrappunto, ciò che precipita parlando, è condizione dell’arte. Se tutte le cose stessero insieme, si tenessero in un insieme, sempre lì ad aspettare chi le nomini o le gestisca secondo una via già tracciata, già stabilita o da stabilire per convenzione sociale o familiare, tutto andrebbe in un’unica direzione, idealmente. Ma ecco un punto, e un contrappunto. Qual è il punto? Qual è il punto in cui qualcosa non funziona e qual è il contrappunto in cui qualcosa non va? Non tutto funziona e non tutto va: se il punto in cui non tutto funziona è condizione della cultura, dell’invenzione, il contrappunto in cui non tutto va è condizione dell’arte. Punto come stile e contrappunto come follia sono due modi con cui l’oggetto e, non il soggetto, interviene nella parola. L’oggetto, objectus, ciò che fa ostacolo, ob, a qualsiasi presa: ne sanno qualcosa i pittori, che inseguono il punto nel suo colore e che trovano irraggiungibile, per quanti sforzi compiano.
La follia, attribuita all’Altro, diviene malattia mentale o genialità. La follia invece concerne ciascun parlante in quanto costituito dal linguaggio. 
Se c’è chi crede di dover curare la follia è perché teme l’arte come ciò che non si può controllare, né incanalare in un percorso obbligato. Il cammino artistico avviene dove la memoria si tradisce. E ciascun ricordo diviene arte solo volgendosi in dimenticanza. È ciò che avviene nella psicanalisi come arte della parola, in cui, diversamente da quanto si crede comunemente, non occorre ricordare affinché la rimozione venga meno ed emerga un contenuto che si era cercato di cancellare. Il ricordo, anche per Freud, è sempre falso ricordo, è ciò che non è mai stato e per questo corrisponde semmai più all’ideale che al vissuto. Chi vive di ricordi vive di ideali e chi fugge dai ricordi teme che l’ideale possa realizzarsi. La memoria è in atto, ed è memoria dell’avvenire, non del passato. Impossibile fissarsi al ricordo, se non nell’idea di origine: al posto della parola originaria, l’idea di origine cerca il rimando a un essere ineffabile, a una sostanza che la parola dovrebbe indicare, alla malattia magari ereditaria, alla tara, quindi, di cui ognuno, il medico compreso, dovrebbe ricordarsi per capire ciò che avviene oggi. Tutto lungo una linea di discendenza genealogica: genealogia del sapere, genealogia del potere, di cui ognuno deve ricordarsi, inequivocabilmente, senza dimenticanza, senza variazione: ricordati chi sei, ricordati da dove sei venuto. 
Ma la dimenticanza non è l’amnesia e non procede dal non ricordo, è la doppia articolazione della memoria, si struttura sul contingente, nel gerundio della vita, vivendo, nella variazione costante. Lungo questa variazione si articola il cammino stesso dell’arte. Per questo è assurdo chiedersi che cosa fare, l’importante è come fare, è lo svolgimento delle cose. Le cose non hanno bisogno di una terapia che le porti alla normalità, alla guarigione. La terapia è l’arte che non muore e da cui non si guarisce. La terapia procede dal contrappunto (nella risorsa della parola, nella sua fortuna, nella sua avventura). La terapia come arte, anziché come psicoterapia, è la vicenda della gloria. Nella sua variazione costante coglie le cose nel loro cammino verso la scena originaria, si rivolge all’incredibile, al dogma nella sembianza. La terapia non è lì per cogliere qualcosa di negativo che debba essere economizzato come riteneva il modello romantico, o che debba finire come riteneva Hegel.
Terapia e formazione, la vicenda della gloria e la trasformazione costituiscono i due aspetti dell’industria della parola nella sua dimensione di sembianza. 
Allora, come divenire artista o medico? Come ciascuno diviene caso di qualità, anziché caso patologico o a caccia di patologie? Instaurando un processo di valorizzazione della memoria, con l’arte e la cultura. Interrogandosi, mettendosi in questione. Solo così il sintomo è una risorsa, ciò che instaura la domanda di qualità, e solo così la guarigione diviene un processo di valorizzazione della vita, restituzione in qualità, anziché restitutio in pristinum. Niente sarà più come prima, non esiste il prima se c’è l’arte, la variazione è costante e noi non ne abbiamo paura.
Allora, ci chiediamo quale medico instaura la scuola dell’artista, anziché esercitarsi nell’interrogazione che fonda la risposta: “Sono sano o sono malato?”. Nella scuola dell’artista importa l’educazione alla cifra, alla qualità, al valore assoluto, anziché il sapere sull’essere, la risposta alla domanda “Sono malato o sono sano?”. 
E ci chiediamo anche quale medico si mette in gioco e sta al gioco, anziché assumere la maschera della severità materna. 
Spesso, c’è chi nota che alcuni medici non chiedono neppure “Come stai?” ai propri pazienti. E sarebbe già un passo se questa domanda fosse un modo dell’apertura. Ma la domanda essenziale è “Dove stai?”, non Come stai, è la domanda che Dio rivolge ad Adamo nella Genesi: “Uomo, dove stai?” (Genesi 3, 9). Dove sei? Allora c’è l’ipotesi dell’avvenire, il progetto e il programma di vita. La risposta a questa domanda non ha nessun riferimento all’essere, ma al viaggio. Nessuno può rispondere con la localizzazione, nessuno può dire dove si trovi, se ciascuna cosa è in viaggio, anche quando sembra ferma. 
A chi chiede quale cura sia consigliabile per divenire caso di qualità, rispondo la cultura e l’arte, non come strumenti per la cura, o perché servano a salvarsi da qualcosa, ma perché curando la cultura e l’arte, nel senso di coltivarle, il viaggio della nostra vita diviene infinito. Allora, come divenire medico, come divenire psicanalista, come divenire cifrematico e perché? Leggendo, scrivendo e incontrando il pubblico, senza pagare il dazio a partiti, ideologie o poteri precostituiti, senza nessun omaggio al luogo comune e al conformismo, ma compiendo una battaglia in direzione della qualità.
Introduzione al dibattito "Medicina e arte" (Hotel Canalgrande, Modena, 5-11-2010)