PAROLA, PAROLE, POTERE
Partiamo da lontano. L’uomo che definiamo civilizzato – abitante cioè, nella polis, la città, all’inizio scongiuro contro la sylva, la selvaggeria senza luoghi e senza dei: l’uomo inventore dell’agricoltura, della domesticazione e dell’allevamento degli animali, della divinità e soprattutto del potere e della sovranità – è rimasto neolitico, faticosamente intento a elaborare artifici, in primo luogo macchine, per sottrarsi all’angoscia.
Ma la suprema invenzione del neolitico è stata la favola che è l’affermazione della necessità del potere, lo strumento didattico che insegna l’impossibilità di muoversi nel mondo senza la bussola del dominio e delle sue metastasi, il potere politico, il potere religioso e la perenne preparazione e mobilitazione alla guerra.
E tutto ciò che per noi moderni neolitici è l’equivalente della “realtà” consiste nella congerie di favole che fa da schermo semiopaco fra noi e la visione poetica. È la nostra impossibilità di pensare al di là del pensiero, questa “radiazione oscura” (Shelling).
L’esistenza umana che è la vita dell’intelletto – l’impossibilità, persino nel sonno di trattenere-escludere-il pensiero, l’impossibilità di accedere al vuoto, di andare nell’inesistente al-di-là – ci confina nelle parole come res, come oggetti fabbricanti di altrettanti oggetti, escludendoci dalla rivelazione, che è il riconoscimento della Parola che rampolla spontanea in noi: esclusione del mito, dunque, della sua duttilità, e pertanto l’obbligatorietà del Sistema Letteratura che poi è il Sistema del Potere, della conoscenza tramite la grammatica e la sintassi, l’estrema difficoltà e rarità di accedere alla Scrittura, all’invenzione senza obbedienze, senza autocensure.
Il Phanes, l’indefinito apparso apportatore di luce, delle tradizioni orfiche, la Parola – che non ha origine perché è originaria – è stata inghiottita da Zeus, e ne è diventata Zeus-Phanes, logos che contiene la Parola originaria trasformandola in linguaggio sistematico.
Donde l’insufficienza del pensiero che si configura come la nostra tristezza, l’impossibilità di dare un senso alla vita e all’universo, l’incapacità di dare risposte alle nostre domande.
Neppure la schizofasia ci redime dall’impossibilità di abitare il mondo attraverso il pensiero, di accedere a un punto di immediatezza non premeditata, rinunciando all’illusione delle certezze metafisiche e scientistiche, quelle che compongono il Discorso soprattutto nella sua ormai onnidominante versione occidentale. Il rifugio nell’immaginario, speranza rivoluzionaria o fantascienza che sia, non scuote la “realtà” del sistema. Dalla profondità della piramide, il faraone-cadavere, come ogni sovrano, continua a determinare i nostri pensieri, e dunque i nostri atti.