COMPLESSITÀ E IDENTITÀ
Il debito pubblico elevato sembra costituire un onere gravoso per i paesi occidentali, risultando un freno per la ripresa economica. In che misura il debito mina i rapporti di fiducia, essenziali per l’esistenza stessa della finanza e dello scambio internazionale?
Uno degli elementi per cui è così importante affrontare il problema del debito pubblico elevato è che la fiducia diventa ancora più importante delle considerazioni economiche vere e proprie. L’abbiamo visto nel caso della Grecia, la cui situazione è peggiorata per la sfiducia che il settore finanziario ha dimostrato nei confronti del paese. Questa sfiducia ha comportato che le obbligazioni del paese fossero sempre più difficili da vendere e l’aumento dei tassi d’interesse ha aggravato ulteriormente il problema. Si crea una situazione in cui il panico genera panico: a causa del panico e della sfiducia del settore finanziario, i tassi d’interesse salgono, è sempre più difficile ottenere prestiti e così chi si sentiva nel panico in un primo momento si sente giustificato. In effetti, tutte le misure anti deficit che vengono mettere in pratica oggi sembrano rivolte a gestire il panico più che la reale situazione della nostra economia. Di fatto in questo momento la situazione reale mi sembra meno drammatica del panico e della preoccupazione che la circondano.
In una crisi finanziaria che sembra essersi trasformata a tutti gli effetti in una crisi economica, molti economisti tendono a focalizzare l’attenzione non più solo sul PIL e sul deficit pubblico dei paesi, ma sul rapporto fra il deficit pubblico e l’indebitamento delle famiglie e delle imprese, che risulta ancora basso. Qual è la sua opinione a questo proposito?
Ritengo che spesso non si tenga nella dovuta considerazione l’indebitamento, ma si prenda come riferimento unicamente il debito pubblico. A mio avviso, il debito pubblico non tiene conto della situazione dell’economia moderna in cui le attività, commerciali o industriali che siano, ottengono finanziamenti che restituiscono nel medio-lungo periodo, in una situazione che si rinnova periodicamente. Un’ondata di panico dovuta semplicemente al debito nazionale, se non lo paragona anche all’indebitamento personale e delle imprese, non risponde a una valutazione precisa.
Al debito pubblico viene attribuita un’importanza esagerata: è diventato un problema così grave solo perché il mondo e la comunità finanziaria lo considerano tale. Dobbiamo ricordare che il governo è l’unica entità che ha il diritto sovrano di creare fondi, le attività industriali e commerciali non possono farlo e, quindi, forse dovremmo preoccuparci meno dell’indebitamento nazionale. L’esperienza degli ultimi tre anni ha mostrato come si comportano le attività economiche, ma non dobbiamo dare per scontato che il loro comportamento sia razionale e sicuro, anzi il problema spesso è l’eccessiva fiducia nei loro confronti
Quali sono le sue impressioni e previsioni sull’attuale crisi economica? Spesso lei ha espresso valutazioni ottimistiche sulla ripresa a partire dal prossimo anno...
Ha ragione nel dire che ho espresso un certo ottimismo per la situazione attuale. A mio avviso la crisi presente è stata causata, negli Stati Uniti, da politiche economiche goffe e miopi che hanno, per esempio, abolito molti strumenti di regolamentazione e controllo che erano sempre stati presenti all’interno della politica economica – si pensi alla soppressione degli strumenti precedentemente utilizzati per il controllo del settore assicurativo. L’ultima eliminazione di misure di controllo e regolamentazione è intervenuta a opera dell’amministrazione democratica, non di quella repubblicana, che nel 2000 ha portato alla liberalizzazione di un settore in cui la speculazione era già molto presente e ha creato una situazione d’instabilità. Quindi, è logico pensare che esistano possibilità di ripresa legate a scelte più oculate in questa direzione, come sta avvenendo nel mercato e nell’economia statunitensi: il paese ha dovuto reagire e tentare di ricostruire la situazione di fiducia che era andata ormai distrutta, per cui c’è stato bisogno di una grande dose di stimoli, tuttora necessaria, per dare maggiore enfasi a tutte quelle misure che possono portare a un aumento dell’occupazione e alla creazione di maggiori incentivi. Direi che ci stiamo muovendo nella direzione giusta.
Cosa pensa della Carta di Lisbona, che promuove gli investimenti nella formazione e nella ricerca? In particolare questa Carta insiste sul concetto d’identità, questione che lei ha trattato in modo importante nel suo libro Identità e violenza.
Per quanto riguarda il concetto d’identità, sono state dette molte sciocchezze. Se consideriamo l’illuminismo, le istanze scientifiche dell’illuminismo europeo hanno consentito connessioni molto chiare tra paesi diversi come la Francia, la Scozia e l’Italia. Ma se consideriamo la ricerca scientifica, anche la Cina ha offerto contributi enormi e per la matematica c’è stato l’apporto determinante dell’India e dei paesi arabi. È quindi difficile tracciare i limiti di queste identità.
A mio parere, è molto difficile marcare una distinzione netta fra l’identità occidentale e quella orientale. Se consideriamo la trigonometria e il concetto di seno da essa individuato, l’origine può essere rintracciata nell’opera di un matematico indiano che ha coniato il concetto di scienza, dandogli il nome di gya. Successivamente, il libro scritto da questo matematico è stato tradotto tre volte in arabo e, nell’800, questa parola indiana è stata trasformata, in arabo, in giva, termine che in quella lingua non ha un significato. Ma, poiché l’arabo non ha vocali, essa veniva scritta come j e v. Nel decimo-undicesimo secolo, questa j assunse il significato di cavo, sicché nel 1850 Gerardo da Cremona tradusse questo segno con seno, dal latino sinus che ha proprio il significato di lago, cava, grotta. Questo è semplicemente l’esempio di una singola parola, ma vale per dimostrare che il concetto di scienza affonda le sue radici sia nel mondo arabo, sia in quello indiano, sia in quello italiano, per cui è molto difficile distinguere l’identità occidentale da quella orientale.
Per offrire un altro esempio, ricordo che molti indiani ritengono che l’identità occidentale sia materialistica e che quella indiana sia più spirituale. Però i primi documenti in lingua indiana, risalenti ad alcune migliaia di anni fa, sono testi di transazioni commerciali, per cui l’associazione dell’identità indiana con la spiritualità in realtà non è corretta. Dovremmo distinguere dall’identità le identità “immaginate” di una civiltà. È vero che, all’interno di una civiltà, alcuni valori, come quello della libertà, possono rivestire maggiore importanza rispetto ad altri. Ad esempio, quando il governo francese ha deciso di vietare l’uso del burqa in alcuni contesti, si è posto un problema di libertà, non di accettabilità rispetto all’identità occidentale. Libertà è anche vestire come si vuole, per cui se una donna, sulla base di questa libertà, vuole indossare il burqa dovrebbe essere poterlo fare.
Ma allora dovremmo essere in grado di capire se si tratti di una scelta libera della persona o di una scelta influenzata da condizioni familiari e sociali.