IMMAGINI, SIMULACRI E INGANNI NEL CINEMA E NELLA COMUNICAZIONE
Dopo gli interventi dei relatori che mi hanno preceduto in questo dibattito (Non è vero ma ci credo, Bologna, 29 aprile 2010), mi resta solo da aggiungere qualche nota a margine.
Gabriele Canè ha ripreso il tema della lapide imbroglio, che in via Fani ricorda Aldo Moro, senza dire da chi sia stato ucciso. Nel mio libro Non è vero ma ci credo (Spirali), parlo anche della statua di Moro che vidi a Maglie e che mi colpì perché gli spuntava dalla tasca “L’Unità”. Rimasi assolutamente senza parole: se c’è un uomo alternativo al mondo comunista è proprio Moro, e mettergli “L’Unità” in tasca è una specie di sfregio alla storia. Ma sono arrivato alla conclusione che la storia in Italia è stata scritta dalla sinistra, anche attraverso il cinema, i talk-show e quei grandi strumenti di comunicazione di massa che sono le fiction televisive.
La fiction intorno a Enrico Mattei, per esempio, che è stata vista da circa dieci milioni di telespettatori, non è fatta male, ma non riporta l’aspetto chiave: Mattei non era soltanto l’uomo dell’industria statale che usava i partiti come taxi; per capire Mattei, occorre ricordare il suo incontro con De Gasperi, che lo chiamò a Roma per chiedergli la scissione dell’ANPI, poiché si approssimava il voto che avrebbe visto lo scontro tra democristiani e comunisti. Dopo quella che fu una delle più clamorose fratture del movimento partigiano, fino allora unitario, De Gasperi lo riconvocò a Roma quasi costringendolo a candidarsi come deputato della Democrazia Cristiana, nelle cui liste fu eletto a Milano. Cito episodi che denunciano il limite di molte fiction, sia di Rai sia di Mediaset, ossia l’assenza di precisione che occorre quando si narra la storia di grandi personaggi.
Più volte mi sono battuto perché in televisione si raccontassero anche vicende controverse. Per esempio, non siamo mai riusciti a vedere un film sul delitto di Giovanni Gentile. Eppure, è uno snodo cruciale, soprattutto per la sinistra, ciò che sta dietro all’omicidio di uno dei nostri massimi filosofi.
Ma anche il cinema oggi è in crisi, il cinema che ha narrato l’Italia del dopoguerra, soprattutto con la commedia all’italiana, seppure con il limite della satira che “castigat ridendo mores”. Ormai ha smesso di fare anche questo e resta soltanto una parodia della commedia all’italiana, un peggioramento il cui emblema è il film Il divo, che giunge alla macchietta. A me non interessa se un regista è di sinistra o di destra e nemmeno se ha ricevuto finanziamenti dallo Stato, ma ciò che dice, come lo dice e perché. Ora, trattare così un uomo che ha rappresentato un segmento di vita del nostro paese significa non avere rispetto della storia. Andreotti è un personaggio tragico e non comico. A parte il fatto che è il rifondatore del cinema italiano: come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ha rimesso in piedi Cinecittà di cui Mussolini era stato il fondatore. Dico questo perché, pur non essendo mai stato andreottiano, avverto questo approccio come offensivo e lesivo della nostra storia: si può essere contro Andreotti, però occorre motivare le proprie posizioni, non si può essere approssimativi.
Caterina Giannelli ricordava che l’imprenditore nel nostro cinema è sempre stato presentato come un capitalista corrotto, corruttore e palazzinaro, perché nel nostro paese non c’è la visione dell’imprenditore che troviamo nel resto del mondo occidentale, come colui che crea e produce, per sé ma anche per gli altri. L’archetipo l’ho ravvisato in un romanzo che ha fatto storia e da cui è nato un film, Il Gattopardo: nel momento in cui si narra il passaggio delle consegne fra il principe di Salina e colui il quale diventerà suo suocero, l’uomo d’affari del paese la cui figlia sposerà il nipote. Leggendo il romanzo, ma anche vedendo il film di Visconti, si nota come la simpatia del regista sia tutta per l’aristocratico, che non fa niente tutto il giorno, sta a guardare le stelle e vive di rendita, mentre l’altro è attivissimo, si dà da fare per acquistare i beni di cui il principe non si occupa e si apre la strada per la successione all’aristocrazia come classe sociale decaduta.
Ma non ci meraviglia questo debito del nostro cinema al marxismo, se pensiamo a chi sottoponeva tutte le sue sceneggiature Visconti: le consegnava ad Antonello Trombadori, che le leggeva e le portava a Palmiro Togliatti per il visto. Non dimenticherò mai quando un giorno all’università ci fu una lunga discussione sulla scena del ballo nel Gattopardo, che io reputavo troppo lunga, oltre cinquanta minuti. Si alzò un ragazzo dicendo che la lunghezza della scena era stata calcolata e lesse ad alta voce l’opinione di Togliatti pubblicata su un giornale: “Caro Visconti, mi raccomando, non dare ascolto ai critici che ti diranno di accorciare la scena che mi hai fatto vedere in anteprima, la scena del ballo, perché è un autentico capolavoro”. Io fui tacciato di anticomunismo, ma non sapevo che Togliatti avesse espresso quel parere favorevole.
Sergio Dalla Val ha notato un aspetto che mi affascina particolarmente, l’inganno strutturale dell’immagine: ne parla tutto il mio libro e a questo proposito mi ha colpito un film molto complesso che piace ai giovani, Blade Runner, in cui l’immagine sfugge al suo creatore. Questo è il grande tema e la grande metafora: al creatore, al regista, allo scrittore, al narratore sfuggono spesso i propri personaggi, vanno da soli, fino a ucciderlo. Questo perché si sovrappongono alla realtà, la condizionano, diventano addirittura una minaccia per la realtà stessa. È quello che succede nel cinema.
Ma vorrei concludere con una riflessione su una parola che sta vincendo faticosamente: il “revisionismo”. Marco Poli in questo dibattito ha rilevato che Giampaolo Pansa viene tacciato spesso di essere revisionista e viene accusato di avere stravolto la storia. Per fortuna abbiamo un giornalista come Pansa, grazie al quale, dopo tanto tempo, abbiamo una lettura di un periodo della nostra storia che prima veniva trattato assolutamente allo stesso modo della lapide di cui parlava Poli, un esempio contorto ma anche limpidissimo del modo di raccontare la nostra storia, mettendo insieme cose che non possono stare insieme. Il revisionismo è qualcosa di cui abbiamo bisogno e forse è iniziata questa pagina nuova, a cui spero di avere dato un piccolissimo contributo. Voglio soltanto ricordare e fare un omaggio a un grande personaggio della vostra terra emiliana, Giovannino Guareschi, l’unico che si è occupato del massacro di Katyn, l’unico che ebbe il coraggio di dire, con le parole di Don Camillo a Peppone, durante la campagna elettorale del ‘48: “Quando avrai un momento di riflessione, pensa a Katyn, pensa a quello che avete fatto”. Ci furono moltissime accuse contro Guareschi – Katyn doveva essere opera dei nazisti –, tanto che lo stesso Guareschi rimase preoccupato e cominciò persino a dubitare. Invece, il tempo gli ha dato ragione. Peccato che, come sempre, la storia è arrivata in ritardo, è arrivata in questi giorni. Tuttavia, meglio tardi che mai.