LA COMPLESSITÀ DEL TERZO MILLENNIO
Perché le cose si complicano? Tutto sembrava procedere in modo coerente, univoco, sistemico: una vita di calcoli a somma zero, di conti che tornano, ogni cosa poteva trovare una sistemazione. Certo, ogni tanto qualche cedimento, qualche indizio di crisi, ma poi tutto si aggiustava, in modo organico, funzionale alla totalità. C’erano le equazioni non lineari per fronteggiare il caos, i sistemi autorganizzantesi di Ilya Prigogine, la teoria morfologica per le catastrofi di René Thom e anche il battito di una farfalla in Brasile era preso nell’insieme, da quando Edward Lorenz lo aveva reso responsabile di una tromba d’aria nel Texas. Tutto è collegato, tutto fa sistema, tutto si tiene. Tao e fisica si potevano convertire l’uno nell’altro e l’economia, anche con la teoria della retroazione positiva di Brian Arthur, poteva avvalersi della biologia e delle scienze cognitive per spiegare l’imprevedibilità degli eventi. O così molti credevano, prima della crisi planetaria.
Interazioni, compatibilità emergenti, assemblaggi di elementi, facoltà di autorganizzazione: ecco la complessità della fine del XX secolo, che mira a unificare, a fare sistema. Complessità dell’uno, in cerca di equazioni che, ancorché non lineari, pretendono di algebrizzare la vita e la sua complessità. È un discorso sulla complessità, che nega la complessità della parola, giungendo a un neodeterminismo. Come unificare gli elementi della parola, la complessità della vita? La parola si staglia sul caos originario, che non è la complessità: è virtù del principio della parola, che non può essere sistematizzato, ma nemmeno sottoposto a morfologia. Come il caos, anche l’aria, la libertà, l’integrità sono virtù del principio della parola, senza più bisogno di sostanza o di soggettività su cui fondarsi. Queste virtù del principio investono ciascun aspetto della parola.
Secondo l’idea di unificazione, le cose procedono da un’unità e devono ritornare, in modo circolare, all’unità. Magari affastellando e collegando tutto con tutto, come nella grottesca lapide citata in questo numero da Marco Poli, o addirittura con la manipolazione storica, come spiega Paolo Pillitteri. Solo se devono essere unificate o sistematizzate, le cose risultano complicate e, dopo il crollo delle ideologie, hanno bisogno di morfologia, semiologia, psicologia cognitiva per trovare un ordine come sintesi superiore o emergente. Così la complessità diverrebbe una sfida, diverrebbe complessità sociale, ovvero composizione di relazioni, di conflitti o di competizioni, all’interno e all’esterno della famiglia, dell’impresa, della società.
La complessità avanzata dalla cifrematica non sta nel principio dell’apertura, procede dall’apertura, dal due originario: è procedura per integrazione, non per unificazione. Procede dall’equilibrio come modo dell’apertura, non deve mantenerlo o dissiparlo. Già Freud andava verso questa accezione di complessità introducendo il termine “complesso”, che poi è stato inteso come patologia da riportare a sistema, con tante complicazioni sistemico-relazionali.
Con la scienza della parola, il complesso dissipa l’idea di sistema, sottolinea l’esigenza di una clinica non patologica, clinica come piega delle cose che si dicono e si fanno nella parola. Già l’etimo di complessità (dal greco plékein) marca la sua prossimità con il termine piega. In che modo le cose che si fanno trovano una piega? In che modo giungono alla semplicità? La complessità assicura che le cose che si fanno non avranno contrattempi, che riescono le cose che si fanno secondo l’occorrenza. Nessun determinismo, la complessità è pragmatica, segue al tempo come taglio, come divisione, che interviene nel fare: facendo, le cose non si uniscono dunque non si complicano, bensì si dividono e, dividendosi, si piegano, fino alla molteplicità e alla semplicità. Togliendo il tempo dal fare, il fare non incontra nessuna piega, non fa una piega: ma proprio allora tutto si complica e occorrono molte complicità, algebriche e geometriche.
La complessità esige l’aritmetica del tempo. Niente complessità senza il tempo, dunque senza il fare. Per questo la complessità abita la scommessa, non la sfida. Nulla è già dato, già scontato o acquisito: la scommessa pragmatica esige dispositivi organizzativi, imprenditoriali, finanziari, avanza una complessità che non si sottopone a cognizione e sistematizzazione, perché è narrativa, lungo l’ascolto con cui le cose procedono per integrazione. Una complessità che non si limita alla non linearità ma esige la spirale, promuove una rivoluzione non circolare, il rivolgersi delle cose verso la qualità.
Come constatiamo dalle interviste agli imprenditori pubblicate in questo numero, questa complessità del terzo millennio esige il racconto, la narrazione, la scrittura dell’impresa, non la sua visibilità, magari attraverso i social network, lampade di Aladino per gli sprovveduti. Nessun coach, nessun counselor per questa complessità da instaurare, con cui nulla è da eliminare o da assimilare, secondo l’idea di bene: ciascuna cosa entra nel viaggio dell’impresa, nel suo testo, nel suo palinsesto di strati infiniti. La complessità assicura la memoria e la scrittura dell’impresa, è complessità intellettuale: per l’imprenditore la difficoltà e la complessità, quindi anche la specificità dell’itinerario, dipendono dall’assenza di deroga alla questione intellettuale. Come per ciascuno. Così la farfalla può volare senza più paura di causare una tromba d’aria nel Texas.