OLTRE IL PRINCIPIO DELLA PACE
Nelle famiglie, nelle scuole, nelle imprese gira aria di conciliazione, di pacificazione, che la guerra in Afghanistan fa invocare ancor più. Ma come interviene oggi la pace? È il contrario della guerra? È forse vero che se vuoi la pace devi preparare la guerra? La pace non è la calma che, tutto appianando, tutto collegando, toglie quel conflitto di cui si nutre. Il principio della pace è il principio della morte e il dialogo con cui si vuole portare la pace è, come mostra Platone, essenzialmente polemologico: vive di soggetti in conflitto fra loro. La fine della guerra come pacificazione porta dunque a un conflitto perenne, sempre gestito, sempre mediato, ma sempre necessario.
La volontà di pace non esiste. La pace non è sottoponibile al volere o al desiderio, non può essere il fine da conseguire. Tutte le guerre diventano di religione se devono portare la pace. La parola originaria, che si staglia sulla libertà e non sulla soggettività, esige la battaglia, cioè va oltre il principio della pace. Se la parola originaria è impadroneggiabile, possono esserci i signori della guerra e i signori della pace?
La cifrematica constata che ciascuno, dicendo, facendo, scrivendo in modo non conformista, si trova in una battaglia senza nemico, in una battaglia per la vita e non contro qualcuno. Battaglia in cui l’Altro esiste, non è escluso come avviene per il terzo nella conciliazione, cioè nella logica aristotelica in cui il principio di non contraddizione porta al terzo escluso e all’Altro rappresentato.
Freud nella Metapsicologia nota che l’inconscio ignora il principio di non contraddizione e in Perché la guerra? trova che la guerra è interminabile. Parlando, la contraddizione è inevitabile, ma anche irresolubile, cioè l’apertura originaria, la questione aperta, non può essere riportata a una sintesi superiore, a un sistema che tutto comprenda, che tutto medii, che tutto pacifichi.
La guerra è la politica stessa e non il suo scacco o il suo proseguimento. È guerra intellettuale, guerra dell’Altro, dell’infinito, essenziale perché le cose giungano a scriversi e scrivendosi a compiersi, fino alla soddisfazione, all’appagamento. Sta qui la pace, sorretta non dalla calma indotta dallo psicofarmaco, ma dalla tranquillità assicurata dal rischio di vita.
Il conflitto su cui poggia il fondamentalismo vuole che il fare, l’industria e la finanza finiscano. Ma nessuna pace può esserci senza la finanza, la quale assicura che il tempo non finisce e che la conclusione non è la morte.
La città del secondo rinascimento non è una città dei conflitti sociali perché è città del tempo e non della calma.
La guerra intellettuale è la politica della città costituita dal lavoro, dal commercio, dall’industria, dall’impresa che mai si appianano: la pace sta nella loro cifra.