RITAGLI DI UN'ITALIA NUOVA
Non c’è migliore omaggio al lavoro artistico di Marco Castellucci di questo libro, L’acquerello di Dio (Spirali), che raccoglie i suoi acquerelli dal 1990 al 2008, compiendo la lettura di un itinerario ricco di talento, rigore e intensità.
Marco Castellucci non è un pittore professionista, è un artista che coglie la chance del tempo fuori orario: in una giornata da dirigente nel settore editoriale, fra gli incontri con i clienti, le telefonate con i fornitori, le firme di nuovi contratti, non mancano le pennellate su un foglio bianco. “La tecnica dell’acquerello mi è stata imposta dalla mia attività, perché l’acquerello dà un’immediatezza di risultato”, annota l’artista. Coglie l’istante e il suo infinito, la sua scrittura è, quindi, pragmatica. E, procedendo da una traccia non figurativa né antropomorfa, emerge l’audacia del colore. Questa audacia non si oppone all’umiltà, alla disposizione all’ascolto, né alla tranquillità cui i suoi acquerelli giungono.
Marco Castellucci dipinge strade e paesaggi della nostra bella città e del nostro paese con invenzione e astrazione, restituendoci immagini spaesanti, ritagli di un’Italia nuova. Il riferimento a Dio, che compare nel titolo, non comporta nessuna religiosità, ma sottolinea l’istanza dell’incredibile che attraversa l’opera dell’Autore e la vita stessa, che in essa è indagata. A questo proposito, leggiamo sant’Agostino nel De Trinitate, in merito all’espressione biblica ad imaginem dei: “Una cosa rappresentarsi con l’anima le immagini dei corpi o vedere per mezzo del corpo le cose materiali, altra cosa intuire con la pura intelligenza, al di sopra dello sguardo dello spirito, le ragioni e l’arte ineffabilmente bella di tali immagini”.
Il capitolo da cui è tratta questa citazione, nonostante sembri suggerire una spiegazione dell’esistenza di Dio, ci consente di leggere Dio come l’idea che opera, né artefice, né demiurgo, ma indice dell’impensabile per cui le cose si scrivono senza l’idea di conoscenza.
Nell’Acquerello di Dio, la mano non è lo strumento del demiurgico Dio, è mano intellettuale, come indica Leonardo. Nulla di più preciso e razionale di dipingere un acquerello, nulla di più attinente alla particolarità dell’Autore e alla sua traccia.
Ancor meno esatto sarebbe presumere che Dio sia rappresentato negli acquerelli di Marco Castellucci. Come scrivere, come dipingere, se l’atto dovesse essere divino? Se Michelangelo fosse stato religioso, un servo di Dio, come avrebbe potuto realizzare il Tondo Doni? Se lo chiese, forse, quando nel 1508 papa Giulio II della Rovere gli commissionò di rendere la magnificenza di Dio sul soffitto della Cappella Sistina? O quando, venticinque anni dopo, Clemente VII de’ Medici lo incaricò di dipingere il Giudizio Universale? Si chiese, forse, se la sua opera dovesse essere religiosa, degna di Dio? Papa Giovanni Paolo II, l’8 aprile 1994, definisce la cappella di Michelangelo “il santuario della teologia del corpo umano”, rischiando di stabilire un’ontologia dell’umano e di asservirlo all’idea suprema della perfezione. Se Michelangelo avesse avuto uno scopo, se si fosse chiesto come giungere all’atto puro, avrebbe potuto anche solo cominciare? L’artista non si fa soggetto né di Dio, come crede la religione, né dell’idea, come crede Platone.
Ciò che noi vediamo nelle opere di Marco Castellucci, grazie all’idea che opera procedendo per astrazione, non ha nulla a che fare con il realismo; la non corrispondenza delle cose, il non rappresentarle una volta per tutte e conformi a verità non volge verso l’inspiegabile, rendendoci inerti di fronte all’impossibile. Dio, l’idea inspiegabile per eccellenza, opera perché le cose si scrivano, perché possiamo coglierne il bello e trovare identificazione nell’Italia che l’artista restituisce alla modernità.
Dopo numerose esposizioni tra Bologna, Milano, Ginevra e Ferrara, nel 2007 la notorietà del maestro bolognese valica i confini europei: è, infatti, uno degli ambasciatori dell’arte italiana in una collettiva di artisti del secondo rinascimento alla Chongqing Exhibition Gallery, in Cina, e più di altri riesce a comunicare al pubblico cinese la forza dell’integrazione tra la tranquillità delle pennellate e la provocazione del colore. Il maestro svolge così l’importante compito di farsi messaggero della cultura italiana e del made in Italy, a cui oggi tanto spesso si fa appello.
Qual è l’apporto dell’arte e della cultura per la scienza e per l’impresa? E qual è l’apporto dell’impresa per il prodotto culturale e artistico? L’incontro di questa sera (Bologna, 18 giugno 2009) è un’occasione per avviare un altro modo di leggere la pittura, anche come punta della scrittura della modernità, lungo le istanze della psicanalisi, della scienza e della poesia. L’arte e la cultura, come nel rinascimento, sono essenziali per il rilancio di tutti gli aspetti della cultura italiana, per la ricerca, per l’impresa, per la politica e per la vita di ciascuno. Per questo è interessante ascoltare la testimonianza di un artista che ha fatto della sua arte materia per un giornalismo intellettuale che dà un apporto alla scrittura della memoria del nostro bel paese.