UNA VERA CRITICA AL COMUNISMO NON È MAI STATA FATTA

Qualifiche dell'autore: 
assessore all'Urbanistica del Comune di Bologna, docente di Dottrina dello Stato

Devo fare un ringraziamento a Sergio Dalla Val perché da molti anni s’impegna con tenacia e capacità a organizzare a Bologna numerose iniziative culturali di prim’ordine; in particolare c’è un filone di iniziative, da lui e dalla sua associazione promosso, che ha sempre prestato particolare attenzione al problema del mondo e della cultura sovietica e ha portato nella nostra città un numero considerevole di intellettuali russi. Quindi, un ringraziamento non formale va a Sergio Dalla Val per l’intenso lavoro culturale da lui svolto.
Il libro di Jakovlev, La Russia, il vortice della memoria. Da Stolypin a Putin (Spirali edizioni), l’ho divorato in tre giorni, perché è straordinariamente ricco sia dal punto di vista biografico e sia da quello della valutazione della storia politica dell’Unione Sovietica. D’altronde, il luogo ha consentito all’autore di avere un osservatorio privilegiato su ciò che è accaduto in questo paese, e io invito chi è interessato a questi problemi a leggere attentamente questo libro. Non voglio assolutamente sostituirmi all’autore nel racconto, né voglio sostituirmi a specialisti di storia sovietica come l’amico Francesco Benvenuti, che è uno studioso altamente qualificato della nostra Università. Però, il problema principale che vorrei porre è un problema politico: come noi italiani, in particolare noi che proveniamo dalla sinistra italiana, abbiamo fatto i conti con la storia dell’Unione Sovietica. Devo dire che la riflessione non è mai stata oggettiva, attenta, rigorosa, ma quasi sempre viziata da atteggiamenti politici preconcetti. Si potrebbe dire che, dall’età del 1917, in cui il mito della rivoluzione russa era persino cantato dai nostri operai (“E noi farem come la Russia”, diceva una canzone di allora, quindi, la rivoluzione russa era vissuta come la rivoluzione socialista per eccellenza), a un’età di disincanto, di delusione (soprattutto gli anni della destalinizzazione), a un’età di lenta e graduale sfiducia, a un’età in cui si cominciava a parlare di fine della spinta propulsiva, siamo giunti all’età, quella dall’‘89 in poi, della grande rimozione, in cui dell’URSS non se parla più, in cui i protagonisti del partito comunista italiano dicono che loro non c’entrano, si chiamano fuori, si vergognano, non affrontano fino in fondo il senso e il significato di quell’esperienza. Tutti questi stati d’animo non consentono oggi di dire che la sinistra italiana, in particolare, abbia davvero fatto i conti con ciò che ha significato questa esperienza. Per esempio, negli anni Venti e Trenta, un certo numero non insignificante, qualcuno dice seicento o settecento italiani, in maggioranza bolognesi ed emiliani, emigrarono in Unione Sovietica, perché con il fascismo erano in difficoltà a rimanere in Italia e, piuttosto che emigrare in Francia o in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove andava la maggior parte degli esiliati politici, preferirono andare nell’Unione Sovietica. Da non molto è stato pubblicato, finalmente, un rigoroso libro di accertamento di questa realtà curato dal giornalista scrittore Giancarlo Lehner, La tragedia dei comunisti italiani, il quale ha ricostruito tutta questa vicenda, dalla quale risulta che quasi tutti gli italiani che emigrarono nell’Unione Sovietica finirono morti o condannati nei gulag della Siberia e di altre regioni. Con l’acquiescenza, non solo la consapevolezza, di quei dirigenti del partito comunista italiano che stavano a Botteghe Oscure, che non solo erano informati di tutto ciò, ma collaboravano attivamente alla lotta contro i cosiddetti trotzkisti ed altri fenomeni che venivano presentati come devastanti dal punto di vista della sicurezza. Questo è un capitolo sul quale è scandaloso che soltanto oggi si cominci a indagare con correttezza e con rigore. E la cosa più incredibile è che cinquecento o seicento vittime sono quasi tutte morte gridando “Noi siamo comunisti italiani”. A loro sembrava inverosimile, assurdo, pensavano di essere vittime di una follia, di un errore, eppure esse sono state vittime generalizzate di una complicità. Questo è un episodio che merita di essere considerato, come quella di Ignazio Silone che già dalla fine degli anni Venti contestava in modo inconfutabile il carattere assolutamente autoritario del regime comunista. 
Questo per rimanere anche soltanto ai grandi capitoli precedenti alla seconda guerra mondiale. Ma i capitoli “più deboli” sono quelli degli anni post Krusciov, dopo il XX Congresso. Si è cercato di dire che i comunisti italiani avevano già anticipato, intuito, delineato una strada autonoma rispetto a Mosca. La verità è che il gruppo dirigente dei comunisti italiani si allineava alla posizione kruscioviana, spesso senza eccessiva convinzione: lo stesso Togliatti aveva atteggiamenti abbastanza sprezzanti nei confronti dei russi. E quando poi lo stalinismo venne denunciato con tutto il vigore nel periodo kruscioviano, in qualche modo si accettò la formula del “culto della personalità”, la formula rituale sovietica. Se era giustificato, comprensibile, che in URSS si usasse una formula così liturgica, nella cultura della sinistra italiana ed europea dire che tutti i mali del comunismo nascevano dal culto della personalità francamente era incredibile. E dinanzi al consolidarsi di un’industria militare di dimensioni gigantesche in URSS, si organizzavano le manifestazioni contro i missili a Comiso, i missili americani: per l’URSS, anche allora, in quegli anni, anche dopo il ’68, dopo l’invasione della Cecoslovacchia, la definizione ammessa era “atti di potenza”: l’Unione Sovietica non era una potenza imperialista, guai a definirla tale, né si poteva dire che era un paese che tendenzialmente esercitava il governo del mondo. Era accettabile la terminologia “terrore”, la terminologia “atti di potenza”, ma non la diagnosi di potenza imperialista. Persino la formula di Berlinguer tanto decantata, tanto individuata come “lo strappo”, che cosa diceva? Che la spinta propulsiva si era esaurita, quindi, riconosceva che la rivoluzione russa fino agli anni di Breznev aveva svolto nel mondo un ruolo propulsivo rispetto alle grandi idee di libertà e di trasformazione.
Il giorno prima che cadesse il muro di Berlino, tanti comunisti italiani, me compreso, proponevano già da tempo di cambiare il nome, di riflettere, di liberarsi di questa sudditanza, perché non era possibile continuare a far credere che il socialismo potesse identificarsi o essere in qualche modo legato a un sistema dall’impatto così palesemente autoritario. E anche quando poi, dopo il crollo del muro di Berlino, si è cambiato il nome, non ho trovato atti significativi nei quali il processo di chiarimento sia stato portato avanti.
Ma queste cose io le ricordo, non per particolare spirito polemico, non perché i comunisti italiani siano persone che non abbiano dotato la storia politica d’Italia di particolari titoli dal punto di vista delle lotte per le libertà del nostro paese e dei lavoratori, ma perché ha gravato sulla loro coscienza, sulla loro storia, sulla loro identità questo peso dal quale non c’è stata alcuna capacità liberatoria autorevole, un peso del quale ancora oggi si paga l’effetto perché una vera critica al comunismo nella storia italiana non è mai stata fatta. Ancora oggi mi piacerebbe chiedere a D’Alema, Occhetto e tanti altri se la loro critica al comunismo sovietico s’identifica con la critica a Stalin e con la critica a Lenin. Qualche volta a Occhetto è scappato, tra una lacrima e l’altra, un pentimento su Stalin, ma non ho sentito una critica a Lenin, Marx poi è stato rimosso completamente. Qual è la causa di tutto ciò? Questa domanda non tende a dire che abbiamo sbagliato tutto, ma a chiederci se abbia senso oggi parlare di socialismo. Dovrebbe essere una domanda onesta da parte di chi vuole mettere in campo ancora una visione politica socialista, nella quale cioè si partecipa collettivamente all’assunzione delle grandi scelte della società. Chi aspira in qualche modo a un’idea di società che trovi conforto nei valori socialisti non può che andare fino in fondo e con coerenza nella denuncia del totalitarismo. Non si può continuare a dire che i lager tedeschi erano cattivi e i gulag erano così così, che i lager tedeschi erano l’industria della distruzione perché la morte era progettata scientificamente, mentre quelli sovietici erano solo campi di lavoro. No, qua si moriva bruciati, là si moriva nel ghiaccio, ma il numero di morti nei gulag sovietici, come è stato ampiamente documentato da Solgenizin in poi, è perfino superiore a quello dei lager tedeschi. È drammatico tutto ciò, è altamente tragico, non si può minimizzare.
La storia dell’Unione Sovietica, come dice il sottotitolo del libro di Jakovlev, “da Stolypin a Putin”, cioè dal tentativo riformista pre-rivoluzionario fino alla realtà attuale, è un capitolo col quale bisogna fare i conti in sede politica, oltre che in sede accuratamente storiografica.
Il grande merito che emerge da questo libro è di avere evitato nel momento più difficile del passaggio dal vecchio sistema alla democrazia (processo che è ancora incompleto ma che sicuramente si è consolidato) che questo avvenisse con un tragico spargimento di sangue. Essere riusciti, da parte di Gorbaciov, da parte di Eltsin, da parte di Jakovlev e di altri, a pilotare in quel momento difficilissimo, la transizione da un sistema che poteva condurre a esiti catastrofici sul piano di conflitti sociali ad un’evoluzione tutto sommato controllabile è un risultato di grandissimo rilievo, perché la rivoluzione fine a se stessa troppe volte ha creato troppe vittime, ha tradito giovani figli. La trasformazione evolutiva, lenta, graduale, fatta con la libertà, è sicuramente la condizione migliore per riuscire ad acquisire un miglioramento vero ed effettivo della società.