LA MATERIA DEL RESTAURO

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segretario generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali

Per quanto negli ultimi decenni la disciplina del restauro abbia compiuto un percorso e raggiunto alcuni traguardi, ha lasciato nell’ombra obiettivi che ritengo fondamentali.

Il progetto di restauro, a opera dell’architetto Pier Luigi Cervellati, del luogo in cui si svolge questo convegno (La materia del restauro, Bologna, 16 ottobre 2009), l’Oratorio di San Filippo Neri, è l’esito di un percorso incominciato, nei primi anni settanta, con il dibattito sul restauro tipologico che avrebbe portato a riconoscere l’importanza della testimonianza materiale.

Oggi, la memoria, la testimonianza e il bene inteso come documento sono valori riconosciuti, ma quarant’anni fa non era così, il percorso è maturato in maniera molto rapida ed efficace, anche grazie ad acquisizioni progettuali che furono oggetto di un dibattito molto acceso. Mi riferisco ai lavori di Carlo Scarpa, negati, all’epoca, dalla cultura del restauro e, oggi, esempio di architettura di qualità. Le vicissitudini dei progetti di Carlo Scarpa hanno interrotto un percorso virtuoso nella sistemazione dei musei italiani. C’era la paura d’intervenire perché quel dibattito, per certi versi, non aveva connotati culturali, ma conteneva in sé qualcos’altro che non ha prodotto un dato totalmente positivo, anzi, ha inibito la possibilità di riflettere sul rapporto tra antico e nuovo. Oggi, noi ne scontiamo l’esito.

Ormai, è acquisito che la tutela del patrimonio culturale passa attraverso il riconoscimento della memoria come testimonianza materiale, ma per almeno trent’anni il termine “materiale” ha sconvolto gli animi. Sono stati dedicati interi libri a dire che “testimonianza” era il termine da utilizzare e “materiale” quello da espungere. Questa posizione si ritrova anche nelle leggi e nelle proposte di legge riguardanti la tutela che si sono avvicendate dal ‘67 in poi. Ora tutto questo è come ricomposto, abbiamo ritrovato una sorta di unitarietà, sancita dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, il cui articolo 29 è stato oggetto di un grande dibattito, cui parteciparono, oltre a me, come direttore generale dei Beni culturali, Stella Casiello e Marco Dezzi Bardeschi. In particolare, il comma 2 dell’articolo 29 recita: “Per restauro s’intende l’intervento volto a mantenere l’integrità materiale del bene culturale anche nel suo contesto e ad assicurare la conservazione e la protezione dei suoi valori culturali”. Con questo, ritengo che finisca un’epoca e nasca un nuovo momento di riflessione per l’avvenire. Occorre non avere più indugi a percorrere questa strada e ad abbandonare quei veleni che, attraverso parole diventate bandiere, come “conservazione” e “restauro”, sono stati alla base di conflitti e divisioni in passato, ma ormai non hanno più nessuna ragione di essere.

Pier Luigi Cervellati diceva che, a livello nazionale e internazionale, abbiamo acquisito la capacità di discutere con il nostro passato. Oggi, direi che questa discussione trova radici anche all’interno della legge di tutela e, precisamente, nell’articolo 29 sopra citato. Pertanto, è inutile cercare in altre discipline i fondamenti del nostro fare: anche se le escursioni nell’ambito filosofico, linguistico e iconologico danno la sensazione di cercare un conforto a quello che stiamo realizzando, ormai dovremmo essere convinti di ciò che facciamo e lavorare nella direzione tracciata dagli archeologi, che sono riusciti a far parlare il dato materiale come gli architetti non hanno ancora saputo fare. Il dato materiale, come la sua tutela e la sua conservazione, diventa essenziale perché porta con sé valori e conoscenze reinterpretabili all’infinito. Gli archeologi sono stati capaci di procedere a questa reinterpretazione. Noi architetti oggi conserviamo con grandissima attenzione le superfici dell’architettura, ma il nostro fare storia dell’architettura è ancora rimasto agganciato all’immagine della fabbrica, non al suo contesto materiale. Quindi, è ancora troppo poco ciò che facciamo per la restituzione in termini di cultura. Facciamo e continuiamo a fare troppo poco rispetto alla struttura dell’edificio. Alcuni strumenti, come i documenti NorMal, riconducono tutto al tema delle superfici, ma quasi mai si occupano della struttura in quanto tale. E, allora, credo non ci sia altro da fare che riprendere con la ricerca, come abbiamo fatto a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, quando per il tema delle superfici eravamo in grandissima difficoltà.

Quando sono entrato in soprintendenza, nei cantieri di restauro si vedevano i muratori, non i restauratori. I cantieri degli inizi degli anni ottanta erano cantieri di edilizia tradizionale. L’inversione di tendenza che vediamo oggi è il frutto sia di una scelta sia della ricerca e dell’impostazione metodologica che pian piano hanno sostituito un tipo di manualità con un’altra: è stato un processo culturale.

Di tutt’altra natura è il nostro atteggiamento nei confronti dell’edificio, inteso nella sua complessità materica, letta sotto un profilo strutturale, rispetto a cui finora abbiamo fatto pochissimo. Non abbiamo gli stessi strumenti di cui ci siamo dotati per gli interventi sulle facciate, abbiamo lasciato spazio a interventi di consolidamento strutturale assolutamente devastanti e, soprattutto, non siamo stati capaci di fare prevenzione. Quello che, oggi, noi lamentiamo a Catania e, in modo particolare, a L’Aquila è l’incapacità di dare gli strumenti, che pure esistono, per fare prevenzione nella salvaguardia del patrimonio culturale, e non solo. Attivando questi strumenti, avremmo potuto conservare la gran parte del patrimonio andato distrutto a L’Aquila e, soprattutto, non ci sarebbero stati quei trecento morti. Quindi, io credo che dobbiamo uscire da questo gioco, ormai diventato autoreferenziale, sulle tecniche del restauro. Ormai, sappiamo fare qualunque tipo di intervento. In trent’anni, da quando mi occupo di restauro, siamo passati da una quasi incapacità di fare a una capacità di fare che tende alla conservazione delle superfici in maniera asintotica, praticamente all’infinito. Però, non sappiamo e non abbiamo saputo fare niente per la conservazione del patrimonio culturale nella sua integrità materica di fabbrica, intesa come struttura, alla stregua con cui abbiamo lavorato per le superfici. Quindi, anche per questo motivo, credo che il restauro, la conservazione o la tutela siano percepiti non come qualcosa che funziona per la città, ma ancora come un impedimento o un soffermarsi su alcune cose abbandonandone altre, una difesa del punto per punto, che è una difesa perdente. A partire dagli anni cinquanta, dalla ricostruzione post-bellica in poi, la difesa per vincoli ha dimostrato di non essere realizzabile. Ecco perché, quando ho parlato di contesto, ho cercato di fare intendere che la difesa e lo sviluppo del territorio passano per una consapevolezza che va al di là del singolo oggetto e investe l’intera città. Penso che la prospettiva verso cui dobbiamo muoverci sia la realizzazione dei piani paesistici regionali, cioè, la messa in opera degli strumenti che consentono di poter dire in partenza che cosa può essere fatto oppure no, evitando il logoramento delle soprintendenze nel misurarsi, di volta in volta, sul singolo punto, raggiungendo limiti di efficacia quasi risibili. Nella difesa del paesaggio, il 98 per cento dei progetti viene realizzato e il 2 per cento è oggetto di annullamento. Ma, di questo 2 per cento, dal 50 al 100 per cento viene annullato in sede di ricorso amministrativo. In questo modo, l’amministrazione dei beni culturali è ridotta all’impotenza nella vera tutela del territorio. Pertanto, la direzione da seguire sta nel condividere la difesa e lo sviluppo del territorio allo stesso tavolo, per trovare le coordinate atte a raggiungere un doppio obiettivo: tutelare e sviluppare questo paese al meglio.