IL RESTAURO TRA CONSERVAZIONE E TRASFORMAZIONE

Qualifiche dell'autore: 
presidente di ARTES (Associazione per il Recupero e le Tecnologie ecosostenibili)

Non è facile parlare di restauro e questo convegno evidenzia le moltissime problematiche connesse con il tema. Da architetto, ho sempre lavorato nel settore con enorme passione. Ho avuto anche straordinarie occasioni, come l’intervento, condotto insieme a Giovanni Carbonara, per l’Arco di Fano, forse, l’ultima opera rimasta di Vitruvio.

Il libro di Roberto Cecchi, Il restauro (Spirali), adotta un metodo narrativo, una volta, particolarmente in auge: molti personaggi e un unico autore. In questo caso, dalla discussione intorno al libro precedente di Roberto Cecchi, emergono opinioni legate a esperienze differenti di tipo amministrativo, architettonico, urbanistico, paesistico e altro ancora. Tuttavia, negli interventi ci sono due elementi comuni: uno è quello d’imparare a rispettare la storia, la stratificazione e la complessità; l’altro, ancora più difficile, è quello di evitare le cosiddette “brillanti semplificazioni”. Spesso, le nostre scuole, eredi del funzionalismo, invitano a prestare attenzione alla soluzione e alla trasformazione piuttosto che esaltare le potenzialità espressive dell’oggetto del restauro. La conservazione e il tramando di un manufatto non può prescindere dall’acquisizione critica della conoscenza, dei suoi componenti e della sua stratificazione storica. L’intervento di restauro è un processo di ottimizzazione tra funzioni compatibili, all’interno della forma e della struttura del monumento. La difficoltà sta nel mettere assieme tali elementi. Per esempio, l’Arco di Fano non ha alcuna funzione, se non quella di esaltare se stesso e la memoria di Augusto, ma conservare un monumento, anche di grandi dimensioni, è differente dal trasformarlo per attribuirgli una funzione differente. A Bologna ci sono tante esperienze probative in tal senso, soprattutto tra le chiese: ad esempio, l’Oratorio di San Filippo Neri, in cui siamo ora, e la chiesa di Santa Lucia, trasformata, prima, in palestra e in laboratorio, poi, nella più bella aula magna universitaria d’Italia. I monumenti antichi si adattano alla trasformazione molto meglio dei moderni.

Oggi trasformiamo, mentre una volta si utilizzavano semplicemente cose antiche, che per lo più erano considerate solo “vecchie”. Il grande passo, compiuto a partire dal secolo scorso, è quello di riconoscere all’architettura del passato il valore straordinario di tramandare esperienza e qualità. Noi possiamo dialogare con i monumenti antichi e individuare soluzioni che rispecchiano la nostra contemporaneità. Tuttavia, considero impossibile il restauro perfetto, quello da cui non trapelerebbe l’intervento. Nell’ottocento, alcuni nostri antenati credevano di fare restauri perfetti che oggi giudichiamo, con sarcasmo, come “restauri ottocenteschi”. Il segno dell’epoca non può essere cancellato, ma dev’essere fatto sulla base di conoscenze da conquistare.

Esiste, però, un altro problema. Oggi, nel nostro paese, il progettista si trova ad affrontare grandissime difficoltà, soprattutto riguardo alle gare che, improntate a modelli europei, fanno riferimento a strutture imprenditoriali che in Italia non esistono. Di recente, la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena ha indetto una gara d’appalto per il restauro di un importante edificio storico della città. Avrei molto gradito poter concorrere a questo progetto di ristrutturazione funzionale, però, i cosiddetti “numeri” richiesti facevano riferimento a situazioni professionali sostenibili solo da società che hanno ben poche corrispondenze con quelle italiane. Nel nostro paese esistono grandissime società d’ingegneria, ma in architettura prevalgono gli studi professionali. Forse, gioverebbe un’alleanza con studi professionali stranieri, anche se hanno una conoscenza inadeguata di ciò che si apprestano ad affrontare, e, spesso, i risultati si vedono. È una valutazione della frequente impossibilità, da parte degli architetti italiani, di offrire quell’esperienza generalmente riconosciuta loro. Nel restauro, sono indubbiamente i più bravi, ma, per quanto dicevo, sono “avviliti” nella loro importante funzione e, spesso, devono accontentarsi di lavori minori. Se le imprese riescono a esprimere la loro capacità, gli architetti possono farlo sempre meno. Nelle gare d’appalto viene data a chiunque la possibilità d’intervenire su un monumento, senza valutare il rischio di guastarlo; a maggior ragione, è indispensabile che sia prodotta preventivamente una documentazione esauriente sulla stratigrafia e sulla storia del monumento. Se questo lavoro manca preventivamente, viene fatto in un secondo tempo e, spesso, con superficialità e approssimazione.

Attualmente, stiamo portando a compimento un centro di ricerca che si configura come polo scientifico e tecnologico del restauro. Nato in Emilia Romagna, con la partecipazione della Regione, dell’Università, dell’ENEA e di altri enti in grado di produrre conoscenza, fa parte di un programma finanziato e riguarda prevalentemente documentazione e banca dati, diagnostica e monitoraggio, lettura del testo architettonico e verifica dell’efficacia delle soluzioni.

Due casi di studio portati a termine hanno riguardato il Castello, detto Palazzo Grossi, di Castiglione di Ravenna, e Palazzo Orsi, a Bologna. In quest’ultimo caso, in particolare, sono state affrontate quasi tutte le problematiche inerenti al degrado architettonico esterno e interno.

Il polo scientifico e tecnologico potrà collocarsi all’interno dello stesso Palazzo Grossi. Per questo palazzo, il progetto di restauro, molto sofisticato, ha richiesto un confronto tra la necessità di conservare e quella d’inserire impianti ad alta tecnologia, compresi quelli per il controllo ambientale. All’interno del palazzo ci saranno luoghi deputati a varie funzioni: laboratorio, formazione, comunicazione con il pubblico e ristorazione. Per quest’ultima, abbiamo delineato un accordo, comprendente la conservazione delle tradizioni alimentari, con il famoso Centro Artusi di Forlimpopoli.